INENARRABILE
PER UNA POETICA DEL SILENZIO INTERIORE
Ugo Morelli
per Michele De Lucchi e il suo rapporto con la parola
“L‘inenarrabile fa pensare
che c’è un giacimento interiore
sempre e tutto da scoprire
e che mai si esaurirà”.
[Michele De Lucchi]
Abstract
Il valore del venire al linguaggio forse non sta solo nella produzione effettiva di una narrazione, ma anche nell’attesa, nella predisposizione, in quel tempo perifrastico attivo il cui senso è nella sua esistenza in sé, nella sua durata, e in quello che produce non diventando narrazione esplicita. Quel valore trova una sua definizione forse ancora più precipua non solo nel fatto che chi non narra a un altro ha l’importante opportunità di narrare a se stesso, ma anche nell’astensione dal risolvere in una narrazione l’infanzia di un sentimento, la profondità di un sentire. Se l’uso estetico del linguaggio, nella struttura di legame con gli altri, emerge dalla pausa che interviene tra la cosa e la sua nominazione, può esserci un oggetto senza nominazione, la cui funzione di lievito interiore sta proprio nell’astensione dalla sua narrazione. Se le parole ci mettono in condizione di creare e di fare, conferiscono libertà ma anche vincoli: l’universo infinito da cui provengono, non il silenzio ma il non dire, ha uno statuto che merita maggiore considerazione. Prima di tutto perché il non dire da parte di ognuno è sempre un già detto a se stesso. E spesso la sua efficacia può essere più elevata per chi si astiene, di quella che sarebbe parlando. Inenarrabile, perciò, non è solo quello che per sue caratteristiche non si riesce a dire con le parole, ma anche quello che assume un potere trasformativo proprio in quanto non accede ad espressione manifesta e condivisa con altri.
The value of coming to language, perhaps, lies not only in the actual production of a narrative, but also in the expectation, in the predisposition, in that active peripheral time whose meaning is in its existence in itself, in its duration, and in that which produces not becoming an explicit narrative. That value finds its own definition, perhaps even more specific, not only in the fact that who do not tell another have the important opportunity to narrate to themselves, but also to abstain from resolving the infancy of a feeling in a narrative , the depth of a feeling. If the aesthetic use of language, in the structure of connection with others, emerges from the pause that intervenes between the thing and its name, there may be an object without a name, whose function of inner leavening lies precisely in the abstention from its narration. If words enable us to create and do, they give freedom but also constraints: the infinite universe from which they come, not silence but not saying, has a status that deserves greater consideration. First of all because not everyone’s saying is always a saying to himself. And often its effectiveness can be higher for those who abstain, than they would be. Unspeakable, therefore, it is not only that which by its characteristics it is not possible to say with words, but also that which assumes a transformative power precisely because it does not access to manifest and shared expression with others.
Key Words
Astensione, significato, riflessione, linguaggio interiore, sentimento, inenarrabile.
Abstention, meaning, reflection, inner language, feeling, unspeakable
Logos erchomenos. L’astensione dal risolvere in una narrazione l’infanzia di un sentimento
La poesia, forse la più elevata delle espressioni della capacità narrativa umana, non può essere “in nessuna lingua, in nessun luogo”. Così almeno sostiene Andrea Zanzotto in un verso di Filò. Il testo dialettale è interrotto, infatti, improvvisamente da un sintagma greco: Logos erchomenos, “lingua che viene”. Il poeta scrive di un narrare “sentito come veniente di là dove non è scrittura (quella che ha solo migliaia di anni) né grammatica: luogo allora di un logos che resta sempre erchomenos, che mai si raggela in un taglio di evento, che rimane quasi ‘infante’ nel suo dirsi”. Quello che non si può dire; quello che non si riesce a dire; quello che, dicendolo, produrrebbe solo rumore; quello che, a dirlo, crea significati meno efficaci del silenzio; quello che se si dicesse fisserebbe il significato paralizzandolo o saturerebbe il vuoto e la mancanza necessari all’evolversi dei significati; quello che “ogni bel tacer non fu mai scritto”; quello che è comunicato dal silenzio generando una profonda ricchezza di significato; quello che se narrato finirebbe per impedire l’altrui narrazione. Tutto questo e altro ancora configura l’importanza dell’ineffabile, dell’inenarrabile, del luogo e dello spazio che precede la narrazione e il narrabile o ne è il sodale o il contrario. Il valore del venire al linguaggio, allora non sta solo nella produzione effettiva di una narrazione, ma anche nell’attesa, nella predisposizione, in quel tempo perifrastico attivo il cui senso è nella sua esistenza in sé, nella sua durata, e in quello che produce non diventando narrazione esplicita. Quel valore trova una sua definizione forse ancora più precipua non solo nel fatto che chi non narra ad un altro ha l’importante opportunità di narrare a se stesso, ma anche nell’astensione dal risolvere in una narrazione l’infanzia di un sentimento, la profondità di un sentire. Se l’uso estetico del linguaggio, nella struttura di legame con gli altri, emerge dalla pausa che interviene tra la cosa e la sua nominazione, può esserci un oggetto senza nominazione, la cui funzione di lievito interiore sta proprio nell’astensione dalla sua narrazione.
L’arte dell’impuro
Stare nel problema ambiguo del dicibile e dell’indicibile pone la questione dell’ossessione della purezza. La tensione verso la dittatura del dicibile risponde alla preferenza implicita accordata all’arte del “puro vedere”, o a quella del “puro descrivere”, ma anche a quella del “puro narrare”. Una preferenza da comprendere e cercare di spiegare. Stante non solo la evidente constatazione del costante alone che accompagna il visibile e la percezione, ogni descrizione e ogni narrazione, diviene un notevole tema di ricerca approfondire la morale da stato civile, di natura amministrativa che richiama il bismarkiano “contare, assistere, controllare”, o una sorta di ragione anagrafica, testimoniale o poliziesca, che assume come parametro la purezza della narrazione e l’oggettività del significato degli eventi. Ancor più rilevante diventa l’aspettativa parametrica di purezza del dicibile e del narrabile, qualora si consideri che la narrazione ha probabilmente origine ed è resa necessaria e possibile, cioè trae senso e valore, proprio dall’incertezza costituiva dell’approssimazione relazionale umana. In questa prospettiva il dicibile e il narrabile, la parola detta, divengono la manifestazione parziale del flusso tacito e indicibile del pensiero consapevole e inconscio che caratterizza l’esistenza della scimmia che si parla, come si può descrivere un essere umano. La parola detta assume le caratteristiche dell’onda superficiale del magma indistinto di un mare profondo, di cui è una provvisoria e incerta espressione. Del resto siamo arrivati al linguaggio a un certo punto della nostra stessa evoluzione e presumibilmente tardi. John Searle recentemente ha scritto che c’erano animali che correvano qua e là sulla superficie della Terra; a un certo punto alcuni di essi hanno iniziato a parlarsi[1]. Da allora le parole creano realtà, generano diritti e doveri e conferiscono poteri alle cose: un pezzo di carta ad esempio, in ragione delle parole che contiene, diventa una banconota; un “sì” pronunciato in un contesto definito istituisce un legame impegnativo con un’altra persona. Se le parole ci mettono in condizione di creare e di fare, conferiscono libertà ma anche vincoli: l’universo infinito da cui provengono, non il silenzio ma il non dire, ha uno statuto che merita maggiore considerazione. Prima di tutto perché il non dire da parte di ognuno è sempre un già detto a se stesso. E spesso la sua efficacia può essere più elevata per chi si astiene, di quella che sarebbe parlando. Inenarrabile, perciò, non è solo quello che per sue caratteristiche non si riesce a dire con le parole, ma anche quello che assume un potere trasformativo proprio in quanto non accede ad espressione manifesta e condivisa con altri.
Poetica dell’astensione
Siamo di fronte all’astenersi e al negarsi una possibilità per scoprire e affermare qualcosa, per esercitare quella che W. R. Bion, con Keats, chiama “capacità negativa”, in cui si genera affermazione per negazione, creatività e immaginazione come frutto dell’astensione. È stato Freud a sostenere che: “Mediante il simbolo della negazione il pensiero si affranca dai limiti della rimozione e si arricchisce di contenuti che gli sono indispensabili per poter funzionare”[2]. Eppure, e proprio per le implicazioni della negazione, è importante
Mimmo Jodice, No, 1976
domandarsi perché è così difficile astenersi. Se si può sostenere che “Sempre quel che si può raccontare (anzi: dire) è una trasformazione; sempre il senso si manifesta nella trasformazione, sempre gli “stati” (delle cose, dei corpi, degli animi) sono provvisori.”[3], è altrettanto possibile riconoscere che vi sono trasformazioni che possono precedere il racconto, che possono attenere al contenimento di un particolare stato del sentire, da cui per via tacita emerga una consapevolezza e una trasformazione possibile. Si può stabilire, in quei casi una connessione stretta tra immaginazione e negazione generativa.
L’immaginazione, prima ancora della narrazione, è una forte provocazione nei confronti della nostra indifferenza. La propensione alla conferma, si sa, prevale nelle nostre scelte e nei nostri comportamenti, anche quando è evidente che mantenere la consuetudine produrrà esiti indesiderabili. L’arena della rassicurazione, così come quella della negazione dell’esistente e della sua messa in discussione, possono essere tacite, non solo perché prima o poi si esprimeranno in una narrazione, ma anche perché sono la fonte di un processo di trasformazione o di esplosione culturale basate sul primato dell’azione e non della parola, per dirla con Jurij M. Lotman[4].
Il mero fatto che gli esseri umani parlano si presenta come un campo in cui agiscono due tensioni contingenti e conflittuali, che si annullano, confliggono o si toccano senza fondersi. Da un lato vi è un momento sorgivo, quello in cui la tensione a parlare preme sulla soglia dell’esprimersi; dall’altro l’espressione che si realizza e si fissa in una grammatica, diventando narrazione.
Se la lingua può essere considerata un sistema collettivo di segni, essa si distingue dall’atto individuale di parola in cui la narrazione tende a coincidere con la pura oralità. Andrea Zanzotto propone un’ipotesi poetica da “offrire timidamente ai linguisti”: “il terzo termine tra langue e parole (la cui radicale dicotomia non è sostenibile) potrebbe essere il momento puramente orale della lingua”[5]. Prima della pura oralità e della parola narrata sembra esserci la tensione che emerge e si astiene, che si propone all’epifania ma si trattiene sull’orlo del realizzarsi, componendo il tacito mondo dell’inenarrabile, le cui biblioteche sembrano essere parte costitutiva di ogni essere umano. Si profila una poetica dell’astensione che si dà prima che il sentire si annulli nel gorgo delle parole o della scrittura, che troppo velocemente “mi stordisce” e “non mi schiarisce”, come, inesorabile, comunica Zanzotto. Lo stesso poeta, che nel conflitto estetico tra inconscio, dialetto e lingua, ha creato la propria poetica, riesce a riferirsi, con un travaglio che alfine porta alla luce il suo sentire, a quella “bestia pericolosa e ineffabile che giace nella profondità dell’io”: “La lingua frena la possibilità di un movimento assolutamente anarchico, che, dopo aver eroso la sintassi, tende ad erodere la morfologia e il lessico, nella direzione di un’espressione che dovrebbe coincidere con l’ineffabilità del grido”[6]. Potrebbe esplodere in grido, e di fatto lo fa, quel sentimento di non riuscire a dire: un grido spesso interiore, rivolto al proprio mondo interno, fatto di tensione e di rabbia, di riservatezza e di astensione, di pressione e attesa da parte degli altri, di rassicurazione nel silenzio e di risentimento verso se stessi per non essersi espressi. Quel grido può essere anche esteriore, come quello di Bobò, l’attore che ha lavorato con Pippo Del Bono, e allora il venire al linguaggio si ferma, per diverse ragioni, dando vita a un suono pre-linguistico che dice non dicendo: una sorta di semantica senza grammatica.
Non dire e dire di no
Eppure non narrare, praticare l’inenarrabile, è faticoso per un animale di parola, quale noi siamo. Insomma, in poche parole o in una parola di due lettere, perché è così difficile non dire o dire di no? La negazione e l’astensione, l’obiezione oppositiva e la pratica dell’inenarrabilità non sono certo la stessa cosa, – l’una è rivolta a un altro o a una parte di noi stessi, l’altra è rivolta principalmente a se stessi e solo in parte ad altri -, ma hanno ad un tempo molto in comune. L’inenarrabilità tende a proporsi come una scelta, non facile, più della narrazione che tende a proporsi spontanea. Il non dire, insomma, sembra impegnativo più del dire.
Eppure vi è un potenziale creativo sia nell’astensione che nella negazione che è forse irraggiungibile per altre vie. L’indicibile, che per certi aspetti è ancora un’altra cosa, ha una sua fecondità peculiare. Quel potenziale riguarda, principalmente, il rapporto tra norma e anomalia. Allora le domande di prima si complicano ulteriormente fino a portare a chiederci quale sia la soglia di accessibilità all’anomalia, alla messa in discussione della normalità dominante o di quella che pare tale. La domanda riguarda soprattutto chi è in grado di mettere in discussione la cosiddetta normalità e se non si crei uno scarto fra la maggioranza delle persone e una minoranza che, sola, è in grado di sottoporre a critica l’ordine dominante e dire di no. Così come sul piano individuale appare rilevante lo scarto fra tutto quello che diciamo e narriamo e quello che tratteniamo, astenendoci. L’astensione ha a che fare con il riconoscimento dell’incertezza del conoscibile e con il non conoscibile, con l’indecidibile e l’indicibile: grembi della conoscenza possibile e riconoscimento dei limiti del conoscibile. “La conoscenza della ‘realtà effettuale’ è un’eccezione, patrimonio di pochi”, come scrive Carlo Ginzburg citando Machiavelli[7], in Nondimanco, Adelphi, Milano 2019? Senza una qualche forma di religione il potere vigente non può mantenersi? O meglio, senza una maggioranza di persone che è fedele a quella forma di religione? Senza l’inconoscibile, insomma, non solo non ci sarebbe la conoscenza e la ricerca di conoscenza, ma non ci sarebbe la possibilità di mantenere un contratto sociale almeno in parte duraturo. Un avverbio in evidente disuso, nondimanco, contiene una posizione e un movimento relazionale e intersoggettivo di particolare importanza. L’eccezione rispetto alla norma politica e morale indica, in effetti, una rottura dell’ordine, una sua negazione, una opposizione alle forme dominanti di potere e al consenso che le sostiene. Analizzando con dettaglio e verifiche particolareggiate le implicazioni della parola nondimanco che ritorna ripetutamente nel Principe di Machiavelli e segnala un elemento che è al centro della sua opera, Ginzburg scrive:
“…nondimanco sottolinea la tensione tra virtù come energia e virtù come qualità morale. Quest’ultimo significato sembra costituire la norma cui si riferisce, ostentatamente, Machiavelli – per introdurre poi l’eccezione che corrisponde alla realtà di fatto. Analogamente, in Discorsi, I, XXVI, si legge che il politico deve essere in grado di praticare «modi crudelissimi e nimici d’ogni vivere non solamente cristiano ma umano…nondimeno colui che non vuole pigliare quella prima via del bene, quando si vuole mantenere conviene che entri in questo male». Non si tratta di un omaggio di maniera alla moralità convenzionale, bensì di un riconoscimento della dimensione tragica della politica”[8]. La dimensione tragica della negazione, non solo di chi governa ma anche di chi è governato, assume le caratteristiche di una virtù. Il problema posto all’inizio è che chi è governato, nella maggior pare dei casi, non si accinge e dispone a praticare la virtù della negazione. La difficoltà di dire di no è approfondita da Machiavelli: “perché lo universale degli uomini si pascono così di quel che pare come di quello che è: anzi molte volte si muovono più per le cose che paiono che per quelle che sono”[9]. L’uso del verbo “pascono” è decisamente eloquente per indicare la disposizione al conformismo e a consegnarsi a ciò che appare come se fosse la realtà. Quella disposizione ha forse a che fare con la difficoltà dei collettivi a contenere l’incertezza, e con le difficoltà a praticare l’astensione riflessiva. Cosicchè si profila una connessione tra conformismo e difficoltà di astensione, come se il vuoto dell’inenarrabile, il vuoto di parola, con le sue difficoltà, trovasse nel conformismo appagamento e risposta. Di fronte a un conflitto interno o esterno possibile tende a prevalere il conformismo, rimuovendo di fatto l’incertezza e confermando consenso e legittimazione dell’ordine costituito.
Il compito infinito
La potenza del dialogo sta nella sua incertezza. L’incertezza non riguarda solo l’esito di ogni dialogo, ma anche il continuo gioco del dire e non dire. Il dialogo rinvia, in fondo, alla continua possibilità di immaginare i suoi esiti. Se non ci fosse l’incertezza dell’approssimazione e l’immaginazione di esiti possibili ma non determinati, il dialogo non avrebbe senso e forse non esisterebbe. Né la razionalità del processo e degli esiti, né la curiosità che l’altro suscita, né l’astensione, né la sola incertezza degli esiti dell’approssimazione fanno del dialogo quello che è, bensì quello che col dialogo si crea e si può creare. Il dialogo è, perciò, il luogo del possibile. Del resto un dialogo, se è effettivo, vive alla temperatura dell’inenarrabile, della sua crisi e della sua interruzione.
Michel Foucault, con la densità del suo rigore, dichiarò in una delle sue ultime interviste: “niente è più inconsistente di un regime politico che è indifferente alla verità; ma niente è più pericoloso di un sistema politico che pretende di prescrivere la verità. La funzione del ‘dire il vero’ non deve prendere la forma della legge, così come sarebbe vano credere che risieda a pieno titolo nei giochi spontanei della comunicazione. Il compito del dire il vero è un lavoro infinito: rispettarlo nella sua complessità è un obbligo di cui nessun potere può fare economia. Salvo il caso in cui s’imponga il silenzio della servitù”[10]. Se risulta problematico essere indifferenti alla verità, ma allo stesso tempo è pericoloso un regime politico che la prescrive, allora in quali direzioni ci interroga la nostra ricerca del vero, comunque presente? Mettere la verità in prescrizione normativa è pericoloso e tendenzialmente totalizzante; allo stesso tempo ridurre il rapporto con la verità alla scivolosa situazione del tutto è vero e tutto è falso porterebbe il legame sociale a una deriva di indifferenza. La verità in fondo è una ricerca, un lavoro senza fine che richiede l’intimità dell’astensione e l’accettazione dell’indicibile, ma è soprattutto un compito ineludibile, seppur il suo valore consista in una continua domanda. Solo laddove si impone il silenzio della servitù il problema non esiste perché è eliminato. Tra democrazia, totalitarismo e servitù, quindi, si pone la questione della verità, della tensione verso la verità, del senso della verità, come lo aveva definito Aldo Giorgio Gargani. La verità come “glassy essence”, come rispecchiamento, è probabilmente una dei principali vincoli alla critica e all’invenzione dell’inedito. Scrive Gargani:
“In luogo della verità come rispecchiamento, come glassy essence, diventa più interessante il gioco della prassi, per esempio inventare o escogitare una socità più bella e più giusta, anziché scoprire la società più vera. Si tratterà di un’etica senza filosofia, senza teoria, senza teoremi, lemmi e scoli, sarà qualcosa che solo la prassi (non per questo cieca) potrà generare entro i vincoli dei contesti e delle situazioni storiche. E il vero, allora, lo perdiamo? Ma no, il vero sarà, come sempre sarà e come è sempre stato, la conseguenza tardiva di un gesto sociale che l’ha preceduto, che gli ha preparato il posto da riempire insieme all’ordine della sua costituzione”[11]. Non è probabilmente affermando una verità che ci realizziamo o si valida una conoscenza, ma è nel dubbio e nella possibilità di non dire o dire di no che ci individuiamo e troviamo la nostra distinzione di specie. Il “potere di non” sta probabilmente alla base della libertà e della democrazia e fonda il dialogo che di quelle due esperienze è il principale fattore costitutivo. Per essere diventato fondamento dell’agire politico e progettuale umano il “no” deve avere a che fare con la nostra intimità, con la nostra storia e deve probabilmente avere correlati nella nostra esperienza evolutiva di specie.
Oltre
Quando siamo diventati capaci di concepire l’oltre e di riconoscerne l’importanza? È verosimile ritenere che ciò sia accaduto con l’inizio della capacità di contenere il silenzio riflessivo, di iniziare a parlarsi nel senso di parlare a se stessi, da cui l’evolversi del pensiero simbolico e della cooperazione e condivisione comunitaria. Il ruolo del pluralismo e della molteplicità condivisa, a partire dalla riflessione sulla molteplicità interiore, così come le funzioni svolte dalla comunicazione cooperativa, sembrano essere stati particolarmente rilevanti per tendere ad andare oltre i comportamenti individuali immediati e pratici e la semplice imitazione della consuetudine. Ciò non vuol dire che la forza dell’abitudine, la potenza rassicurante del consueto, la disposizione alla ripetizione e al consenso per ciò che è noto e ripetitivo si siano dileguate. Tutt’altro. Dire di sì all’esistente ha convissuto e convive con la capacità di astenersi dal narrare e dire di no. Prove evidenti mostrano, anzi, come la propensione alla conferma dell’esistente tenda ad essere prevalente in ogni manifestazione umana, connessa com’è ai sistemi emozionali di base e alla memoria filogenetica con tutte le implicazioni che ne derivano in termini di necessità di tutela dalla paura e dall’incertezza. Parlare, in fondo, assolve e rassicura. Solo così si può andare oltre, potendo contare su una base sicura, che però consegna sempre, in una certa misura, al rischio del conformismo e della rinuncia alla ricerca della discontinuità. Del resto “oltre”è sia un avverbio di luogo che di tempo e rimanda, pertanto, al tempo e allo spazio. Andare oltre, perciò, indica sia la disposizione a porre al centro il futuro e non solo il presente, sia la possibilità di creare spazi di possibilità rispetto all’esistente: in entrambi i casi la capacità di contenersi e contenere è fonte del possibile.
Ridursi e ridurre al silenzio
La sorella maggiore di Ludwig Wittgenstein, Hermine, scrive, nei suoi ricordi, di un dialogo col fratello, dopo la sua decisione di rinunciare alla filosofia e di fare il maestro elementare.
“La sua seconda decisione, quella di scegliere una professione del tutto inappariscente, e se possibile di fare il maestro elementare in una scuola di campagna, fu per me in un primo tempo incomprensibile, e poiché noi fratelli siamo abituati a esprimerci per immagini, gli dissi allora, in occasione di una lunga discussione, che immaginarlo come maestro elementare, lui con la sua raffinata intelligenza filosofica, era come immaginare uno che volesse usare uno strumento di precisione per aprire una scatola di latta. Ma Ludwig mi rispose con un paragone che mi ridusse al silenzio. Mi disse, infatti: ‘Mi ricordi un uomo che guarda attraverso una finestra chiusa e che non riesce a capire gli strani movimenti di un passante; non ci riesce perché non sa quale tempesta si è scatenata là fuori, e che quell’uomo forse fa fatica a tenersi in piedi”[12].
Appare evidente come non vi sia possibilità di relazione se non come approssimazione, in quanto non c’è “logos” senza “dia”: (intersoggettività) dia-logo; e non c’è immagine senza azione (azione): immagin-azione. Entrambe sembrano trarre la condizione di possibilità dalla sospensione, dall’ascolto, da un certo livello di astensione: dal riconoscimento, in fondo, del valore di una delle proposizioni più note del suo Tractatus Logico-Philosophicus, la 5.6, in cui Ludwig Wittgenstein sosteneva che “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”. Il primato dell’azione e dell’intersoggettività nell’esperienza umana sono possibili in quanto c’è uno spazio interiore, un vuoto provvisorio, che consentono di riconoscere che ogni presenza è unica e per il fatto stesso di essere presente implica una affermazione che è anche negazione, sia a livello individuale che collettivo.
Verità come ritenzione e negazione
È ritenendo, riflettendo e negando che si afferma in democrazia, e così si realizza la forza fragile della democrazia. Il conflitto, inteso come dialogo tra differenze, trae origine dalla possibilità umana di dire di no, prima di tutto a se stessi. L’atto di riconoscere almeno in parte le buone ragioni dell’altro richiede in primo luogo una certa capacità di gestione del conflitto interno o intrapsichico[13]. La generatività del conflitto dipende da un dialogo prima di tutto interiore. C’è dialogo quando c’è differenza, e l’elaborazione di una differenza implica l’attraversamento di un conflitto di minima o elevata intensità. Noi siamo quelli che vivono a partire dall’astensione e dall’azione allo stesso tempo, e cercando significati di entrambe, che così diventano esperienze. In questo transito, in cui l’intersoggettività si fa unicità soggettiva, per l’unicità relativa del sense-making che ci caratterizza, essendo noi intersoggettivi che diventano unici nell’intersoggettività, emergono differenze nell’attribuzione di senso e di significati. È nella selva delle differenze di significato che emerge la necessità/possibilità del dialogo. È in quella situazione originaria in cui ognuno è almeno in parte originale che si crea la differenza che deve essere continuamente e dialogicamente elaborata. In origine, dal due nasce l’uno, che nasce pensandosi e istituisce un nuovo inedito due, la cui presenza richiede elaborazione. Nel momento in cui l’uno che nasce è vero, per il fatto stesso di esserci esige l’elaborazione della differenza che la sua presenza propone. La verità della presenza richiede di essere proposta e affermata, in quanto solo quando diventa vera, cioè quando assume contingentemente senso per sé e per almeno un altro, può essere riconosciuta come tale. Quel riconoscimento è, però, sempre provvisorio e tale da richiedere di essere confermato nel dialogo con se stessi e con l’altro. Si tratterà, nel tempo, di un riconoscimento che, proprio perché provvisorio, attiva ricerca dialogica alla ricerca continua di riconoscimento. “Sono sempre più convinta che le nostre vite dovrebbero reggersi un po’ più sulla meraviglia che sul cinismo” ha detto Isabella Rossellini[14] .
Il dialogo dell’origine
Quando nasciamo? Ovvero a quando risale la nostra data di nascita?
Il dialogo nasce da un vuoto riflessivo interiore e da una negazione. L’incontro con l’altro può essere ricondotto a due situazione archetipiche, per comprendere qualcosa di più della sua natura e dell’ipotesi della nascita del dialogo da una negazione. La prima situazione la immaginiamo risalente al tempo profondo delle nostre origini di specie. Deve essere durato molto a lungo il tempo in cui l’incontro con un altro, per quanto simile, ma comunque tale da occupare uno spazio con la propria presenza, induceva una reazione aggressiva e quasi certamente distruttiva. La presenza dell’altro negava, occupandola, una parte dello spazio della propria autonomia. Regolare quella minaccia ed elaborare la paura connessa, in modo dialogico e non distruttivo, deve aver richiesto molto tempo. Quella scena ritorna ogni volta che la presenza di un altro, individuale o collettivo, è ancora oggi regolata con l’antagonismo e con la guerra nelle sue diverse forme. Questa scena del tempo profondo e attuale si rinnova ologrammaticamente ogni volta che la presenza di un altro, un feto, fa la sua comparsa nel corpo di un’altra mammifera con la gestazione. Nella mammifera umana, quella presenza che giunge, occupa per nove mesi uno spazio specifico intracorporeo progressivamente più ampio, fino alla nascita. Mentre nega con la propria presenza l’uso precedente dello spazio e una parte importante dell’autonomia del corpo che lo contiene, il feto esige e propone un dialogo, la cui rilevanza per l’individuazione reciproca tra madre e feto è sempre più riconosciuta come cruciale. Nasciamo forse non nel momento della nostra fuoriuscita dall’utero materno, ma al momento del concepimento e istituiamo con la nostra presenza un incontro dialogico, più o meno conflittuale con il corpo-cervello-mente che ci contiene, fatto di aspettative e di ansia, di desiderio e di paura, di giocosità e di sofferenza. Come misura ologrammatica e metaforica del dialogo con l’altro, il tempo di attesa della vita che è già e non ancora vita, si propone come una buona approssimazione a rappresentare il valore della provvisoria astensione e dell’attesa, del dialogo con sé come condizione del dialogo con l’altro.
Il possibile nasce dall’impossibile
“E’ certo del tutto esatto, e confermato da ogni esperienza storica, che non si realizzerebbe ciò che è possibile se nel mondo non si aspirasse sempre all’impossibile”. Così Max Weber nella conferenza Politik als Beruf, La politica come professione, tenuta a Monaco il 28 gennaio 1919, un secolo fa[15]. Cercare di affermare l’impossibile significa mettere in discussione l’esistente. L’impossibile è anche impossibile a dirsi. Metterlo in discussione vuol dire almeno in una certa misura negarlo. “Spiegare le prerogative e gli usi del segno ‘non’ significa spiegare alcuni tratti distintivi della nostra specie: la capacità di distaccarsi dagli avvenimenti circostanti e dalla pulsioni psichiche, l’alternarsi di inibizioni e disinibizioni non prescritte da strategie di adattamento all’ambiente, il bisogno di riti e istituzioni, l’ambivalenza degli affetti, l’attitudine a trasformare repentinamente le condotte più abituali”[16]. Si tratta perciò di andare oltre l’accezione negativa della negazione. La negazione non è solo apatia, ma è anche insubordinazione rispetto a un ordine routinario. Le interpretazioni del famoso libro di Herman Melville, Bartleby lo scrivano, hanno richiamato di volta in volta l’assurdità del comportamento umano, la massima affermazione dell’autonomia e della libertà individuali, la solitudine e l’incomprensione estreme, e altro. Certamente non è da trascurare la dimensione di generatività e di originalità che, seppur ambiguamente connessa a componenti depressive e critiche, emerge da ogni astensione e negazione. L’astensione, la negazione e il vuoto che si crea sono connessi da quella che forse è una delle tendenze principali della creatività contemporanea: la pulsione negativa, come testimonia con forza narrativa particolare Enrique Villa-Matas[17]. Del resto in un’epoca nella quale siamo capaci di riconoscere il ruolo dell’incertezza e del caso nella costruzione dei significati della realtà, varrebbe la pena consegnarsi al senso della verità, piuttosto che a una concezione marmorea della verità stessa, soprattutto dopo i contributi della seconda cibernetica, che su incertezza, verità, astensione e negazione sono stati così ben argomentati da Heinz Von Foerster[18]. La forza dell’astensione, del dialogo e della negazione, del conflitto come incontro e confronto tra differenze, dovrebbero imporsi come alveo generativo dell’immaginazione. Il vuoto, utero dell’immaginazione, può nascere solo da una negazione dell’esistente, da una forma di astensione e disobbedienza rispetto all’ordine costituito, da una costruzione che in una certa misura astrae da se stessi.
Gerhard Richter, Abstraktes Bild, 2016
Astrarre da se stessi
Se negare l’esistente è già un’operazione difficile, ancor più impegnativo è il precipitare nel vuoto che l’astensione e la negazione comportano, e successivamente la prospettiva costrittiva di ritrovarsi in una solitudine che consegna almeno provvisoriamente a se stessi, in una costruzione che senza la narrazione astrae dall’altro, rischiando di proporre un’unica possibile via d’uscita che non sia la regressione al conformismo. Noi esseri umani, che pure disponiamo della competenza e del pensiero simbolici, mostriamo di essere infanti simbolici. Abbiamo, infatti, una costante difficoltà con tutto ciò che si presenta:
- intangibile
- immateriale
- lontano
- invisibile
- inconscio
- astratto
Solo il dialogo che si svolge nell’interiorità e nell’intersoggettività, un dialogo educativo nel senso più proprio, può rendere possibile l’accesso alla propria capacità di accedere all’invisibile e alle altre dimensioni, come base per sviluppare l’immaginazione.
Se siamo esseri intersoggettivi come e dove si genera lo spazio del dialogo? Nel gioco, inteso anche come margine fisico tra elementi, tra l’essere intersoggetivi e diventare soggetti, tra l’essere dividui e diventare individui, anche se dividui che si pensano almeno in parte sempre restiamo. Lì, con ogni probabilità, si apre e diviene allo stesso tempo necessario lo spazio del dialogo. Quel gioco è infinito, nel senso che non ha mai fine, per degli esseri che giungono a se stessi e al mondo attraverso la ricerca di significato e che, in quanto danno significato, conoscono se stessi e il mondo. Non è sostenibile perciò, in modo lineare, che siamo un dialogo: se non ci fosse la relativa autonomia dell’intima ritenzione e dell’unicità che tende senza fine ad affermarsi nel resistere alla dipendenza intersoggettiva senza mai riuscirci del tutto, noi non saremmo quello che siamo. Pur tendendo, del resto, ad affermare la nostra autonomia e unicità, noi sappiamo, e ognuno di noi sa, che di fatto non vorremmo riuscirci mai, per non precipitare nel buco nero della solitudine. Siamo forse una struttura dinamicamente intarsiata di dipendenza e autonomia, di intersoggettività e unicità tendenziale. Ci componiamo e ricomponiamo continuamente nella conversazione infinita di elementi altrui e nostri e la nostra individuazione emerge, forse, da quel gioco linguistico ed esperienziale: è in quel gioco delle relazioni che il dialogo della nostra esistenza si snoda fino a che non ci decomponiamo. Anche a quel punto e dopo quella svolta il dialogo continuerà tra chi continuerà a comporsi e ricomporsi e noi, non più direttamente attivi, ma invisibilmente presenti nell’impasto che prosegue della individuazione altrui, di coloro, cioè, che continuano a dialogare con la nostra presenza assente. Scopriamo così che il dialogo, oltre che figlio dell’astensione e della negazione, dipende anche dall’invisibile, dagli invisibili, dall’assenza, dalla mancanza. L’intolleranza del vuoto ha a che fare in buona misura con la nostra intimità e intersoggettività originarie. Perché con tutto ciò che è immateriale, invisibile, intangibile, noi non siamo del tutto a nostro agio? Troppo lungo è stato il tempo, sul totale della durata della nostra specie, per avere un rapporto equilibrato con l’invisibile e l’intangibile. Siamo infanti simbolici e non educati alla pratica dell’immaginazione. L’oltre: il dialogo con il nostro mondo interno e con quello che ancora non c’è e non ci sarà mai, può essere l’alveo, l’utero dell’immaginazione. Quello che con ogni probabilità inter-viene nella relazione con l’altro e, in particolare, in quella specifica relazione asimmetrica che è la contingenza terapeutica, forse non è un trasferimento, un trasfert. Così come nella metafora viva, come l’ha definita Donald Davidson (live metaphor) non si tratta tanto di trasferire qualcosa in qualcun altro, bensì di ghermire il momento in cui la parola, traslandosi, diviene ciò a cui allude, mentre decidiamo di proferirla o di farla lavorare in noi.
Far lavorare in noi la parola
Più che un trasferimento, a realizzarsi è una “metamorfosi”, di un mutarsi non tanto l’uno nell’altro, ma di un “divenire altro” da quel che si era. “Species vultus eius altera”: come nel Vangelo di Luca in cui il volto diviene, non l’altro, ma altro da quel che era fino a divenire quel che sarà grazie a quella contingenza intima, relazionale e intersoggettiva. Soprattutto perche oggi sappiamo che l’uno e l’altro sono già, prima di svolgere un incontro, prima di quello specifico incontro, una relazione, una intersoggettività che precede la loro provvisoria individuazione, il proprio essere in-dividuo, prima di essere almeno provvisoriamente un “autos”. Oggi sappiamo che “autos” e “eteros” si diventa dopo essere intersoggettivi; anzi è perché si è intersoggettivi che si può divenire soggettivi; che l’intersoggettività precede e genera la soggettività possibile. A condizione che la parola dicibile lavori in noi prima di essere detta o senza che sarà mai detta. Il dialogo diviene il crogiolo in cui le resistenze soggettive indaffarate provano a rinunciare ai propri arroccamenti e grazie ai tentativi in termini di una prassi di “meno io” cercano di conquistare una “zona incontro” frutto di un ritiro identitario in grado di divenire altro, non sopprimendo le differenze, ma avanzando verso una ridefinizione che utilizzi l’intersoggettività e la relazione per accedere a una seppur parziale metamorfosi che porti entrambi, non a trasferire qualcosa di sé nell’altro, ma a divenire altro. La rimozione più profonda della forza della psicoanalisi consiste forse nel meccanicismo del trasferimento e del controtrasferimento in cui l’asimmetria non è al servizio dell’evoluzione ma della ortopedia della trasformazione dell’altro. Laddove, invece, ciò che rende tale ogni dialogo, e quello terapeutico in particolare, capace di sostenere l’evoluzione è la “zona incontro” in cui l’opportunità effettiva è quella di divenire altro nell’essere ciò che si è, nel trasformare se stessi grazie anche all’inenarrabile. Secondo la potenza poetica di Paul Celan, è lo spazio di “nessuno”, della deflagrazione di ogni presenza, la porta di accesso a se stessi:
Nessuno con terra e argilla ci forma,
nessuno soffia nella nostra polvere.
Nessuno.
Laudato tu sia, Nessuno.
Per amor tuo vogliamo
fiorire,
incontro a te
venire.
Un nulla eravamo,
siamo, fiorendo,
un nulla resteremo :
rosadinulla,
rosadinessuno.
Con
il pistillo animachiara,
lo stame cielodeserto,
la rossa corolla
del verboporpora che noi cantammo,
sopra, oh! sopra
la spina.
Forse l’inenarrabile, l’astensione, la capacità di negare, di dire di no, nascono dall’essere diventati noi, con l’avvento evolutivo del pensiero simbolico, consapevoli della nostra condizione di derivare da Nessuno, per dirla con Paul Celan.
La scoperta riflessiva dell’autofondazione è anche dolorosa e angosciante.
[1] J. Searle, Il mistero della realtà, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019.
[2] S. Freud, La negazione (1925),Testo originale:“DieVerneinung”, http://gutenberg.spiegel.de/buch/die-verneinung-915/1.
[3] S. Bartezzaghi, Algirdas J. Greimas, in segno d’amicizia, doppiozero, 16 marzo 2019.
[4] J. M. Lotman, La cultura e l’esplosione: prevedibilità e imprevedibilità, Feltrinelli, Milano 1993.
[5] A. Zanzotto, Qualcosa al di fuori e al di là dello scrivere, in Le poesie e prose scelte, Mondadori, Milano 1999; p. 1230.
[6] A. Zanzotto, Lingua e dialetto (appunti), 1960, ora in A. Zanzotto, In nessuna lingua in nessun luogo. Le poesie in dialetto 1938-2009, Quodlibet, Macerata 2019; pp. 17-18.
[7] C. Ginzburg, Nondimanco. Machiavelli, Pascal, Adelphi, Milano 2019.
[8] Ivi, p. 148
[9] Ibidem, p. 214.
[10] M. Foucault, Le souci de la verité, “Magazine littéraire”, maggio 1984.
[11] A. G. Gargani, Il vincolo e i codici simbolici, in A.A.V.V., Il vincolo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006; p. 86.
[12] L. Wittgenstein, Familienerinnerungen, a cura di Ilse Somavilla, Haymon, Insbruck-Wien 2015.
[13] U. Morelli, Conflitto. Identità, interessi, culture, Meltemi, Roma 2006; U. Morelli, Il conflitto generativo. La responsabilità del dialogo contro la globalizzazione dell’indifferenza, Città Nuova, Roma 2013.
[14] I. Rossellini, intervista, Robinson, 6 gennaio 2019.
[15] Cfr. la traduzione italiana di F. Tuccari, Oscar Mondadori, Milano 2006; pp. 134-135.
[16] P. Virno, Saggio sulla negazione, Bollati Boringhieri, Torino 2013.
[17] E. Villa-Matas, , in Bartleby e compagnia, Feltrinelli, Milano 2002.
[18] H. von Foerster, La verità è l’invenzione di un bugiardo, pubblicato in italiano da Meltemi, Roma 2001.