Fango

Di Ugo Morelli.
Archivio Sezione Hic et Nunc
(pubblicato in www.politicaresponsabile.it)

Parola ambigua, fango. Ripercorrendo molti miti, quello giudaico e cristiano incluso, è la sostanza di cui saremmo fatti. Risalendo a quel che sappiamo delle nostre origini, la vita dei vertebrati sulla terra deve essere emersa dal fango, provenendo noi dalle acque del mare. Sollevarci ha richiesto milioni di anni. Autoelevarci semanticamente poi, da centocinquantamila a quarantamila anni fa, circa, con un’esplosione improvvisa, pervasiva e tuttora in corso; probabilmente un’exaptation, come la chiamerebbe Stephen Jay Gould. Un momento fa, se si usa come parametro l’intera durata dell’evoluzione della nostra specie che ammonta a circa sette milioni di anni. È forse per questo che, un po’ come i bambini, gli infanti appunto, del fango tendiamo a fare un uso regressivo, perverso, che rischia di riportarci a quando eravamo immersi nelle pratiche immediate della sopravvivenza. Il fatto è che simbolici lo siamo e nella semiosi attuale siamo immersi. In quella semiosi circola di tutto e in alcune provincie del pianeta oggi piove fango, un fango che si immette e pervade la circolazione dei significati. Così il fango e il suo uso assumono oggi significati nuovi. È un fango immateriale quello che circola, ma molto consistente. Si tratta di un fango che mostra di avere due bersagli preferiti: l’altro e le istituzioni. Evoca l’aggressione contro l’altro e la sua integrità, la sua autostima e ricorre all’abiezione e alla turpitudine come criteri relazionali. È un fango che tracima e travolge il valore della vergogna sfondando ogni soglia etica. Sul piano del mondo interno è una regressione allo stato anale. Tende a corrodere il senso e il significato delle istituzioni fondative del nostro legame sociale, infangando le stesse regole che sono usate per affermarsi e prendere il potere. Il concetto di “costituzione materiale” contrapposto a quello di “costituzione formale”, ad esempio, è fango contro gli elementari fondamenti della convivenza civile, contro quel “tra” che è il luogo dove si fondano e si evolvono “io” e “altro”. Sostenere che “il governo è del popolo” è fango se non si completa la frase aggiungendo: nei limiti stabiliti dalla costituzione. Insidiare e distruggere la scuola e le istituzioni culturali alla base è l’equivalente che scaricare fanghi industriali inquinati nelle terre coltive, come fa la camorra, precludendo ogni futuro di civiltà e ogni pensiero critico.
Noi però dobbiamo essere consapevoli del fatto che le stesse vie mentali, affettive e cognitive, che veicolano i valori etici, sono quelle che fanno circolare e affermare i significati che possono essere distruttivi; sono le stesse vie che diffondono il fango.
La via che veicola i principi etici della candidatura al governo della cosa pubblica è la stessa dalla quale tracima il fango della tesi che prostituirsi per essere candidate è cosa giusta. Il problema che dobbiamo affrontare e ciò che dobbiamo comprendere è perché il fango viene non solo accettato come se fosse sostanza profumata e gradevole ma diviene oggetto di emulazione, imitazione e attrazione da parte della maggioranza. Come accade? È necessario e urgente capirlo.
Del fango è prima di tutto responsabile ognuno di noi. Quando replichiamo, anche senza riflettere e accorgercene, comportamenti e atteggiamenti che mostrano di ritenere l’altro solo un mezzo per la realizzazione dei nostri fini: una volta un consumatore; un’altra un elettore; un’altra ancora un cliente; e poi un malato o uno che ci può sostenere col suo consenso. Come in Truman Show, c’è un velo spesso da rompere per accorgerci che l’altro è la condizione di ogni mia possibilità, a partire dalla mia individuazione. Senza il legame empatico e conflittuale con la differenza che egli porta, che sia vicino o lontano, semplicemente non posso dire chi sono.
Ce lo tiriamo addosso il fango quando sosteniamo o replichiamo l’ideologia che noi esseri umani saremmo egoisti per natura e saremmo fatti in modo da perseguire solo il nostro interesse. Da fonti sempre più verificate a livello di neuroscienze cognitive sappiamo oggi che siamo allo stesso tempo attenti ai nostri interessi e altruisti per natura, e le due cose non sono opposte, ma una la condizione dell’altra. Ci tiriamo fango quando con l’educazione dei figli, a scuola, o nello sport e nel lavoro spingiamo solo la leva dell’egoismo e dell’individualismo, o ripetiamo parole come aggressivo e vincente come se fossero i valori positivi ai quali tendere. Ci infanghiamo quando abusiamo pubblicamente, o accettiamo passivamente che altri lo facciano, delle emozioni come il pianto e il desiderio, il dolore e il piacere, scadendo nell’osceno e rompendo ogni argine di pudore, replicando nella realtà il fango dei “modelli” televisivi. O quando confondiamo l’esteriorità apparente con la bellezza.
Accanto al fango di cui siamo direttamente responsabili piove fango (e a volte rischia di sommergerci) che siamo responsabili di accettare passivamente, dicendo, magari: e cosa ci posso fare io? Quel fango proviene da un sistema organizzato di spalatori che comprende stuoli di avvocati e giornalisti, di intellettuali e manovali, di donne complici di uomini che le usano. Si tratta di produttori di fango su commessa che preparano dossier infanganti da veicolare con tutti i mezzi a disposizione e con tutti i servili professionisti della comunicazione a pagamento.
Siccome fango chiama fango, il fango rischia di divenire tacita consuetudine se non si investe in eccedenza e non si tira su la testa dalla sua viscida sostanza. Riconoscendo che il fango bisogna attraversarlo e non ci sono scorciatoie.
Esiste la possibilità di pronunciare con un altro tono la frase di cui sopra. Si può cioè dirsi e dire con intenti propositivi e progettuali: “cosa posso fare io”!, per cambiare le cose, qui ed ora; per piantare, ad esempio, fiori nel fango. Non è forse questo il primo elementare senso della politica?
Un senso che coinvolge il mondo interno di ognuno e si connette immediatamente ad un progetto di cambiamento con l’altro. Sta tra “io” e “altro”, è un atto collocato “infra”. Come la politica per Hannah Arendt. L’ha ricordato recentemente Gustavo Zagrebelsky. Secondo la grande filosofa ebrea-tedesca la peculiarità della politica è l’essere collocata infra, in mezzo, tra le persone. La virtù politica è propria di coloro che amano stare “con” le altre persone, non “sopra”, nemmeno “accanto” o peggio “altrove”; (Was ist Politik?, trad. it.: Che cosa è la politica?, Edizioni di Comunità, Torino 2001; pp. 5 e segg.).