Irpina infelix: ci manca un nuovo raccontro di noi stessi *
Di Ugo Morelli (* da Il Mattino, 28 dicembre 2016). Hic et Nunc E noi qui a ricomporre frantumi che a mala pena stanno insieme, eppure capaci di fornirci un senso dei luoghi, di noi stessi, della nostra storia e della nostra memoria. Frantumi residuali, costipati in tentativi di ricostruzione, nella maggior parte dei casi mal riusciti. Quel senso dei luoghi che comunque emerge, è però perennemente provvisorio e dura il tempo di un rituale o di una commemorazione. Il tempo è un grande scultore, ha scritto da par suo Marguerite Yourcenar, che con la memoria ci sapeva fare. Non è mai stato vero, nonostante tutto, che per noi il passato divenisse una terra straniera. Ci siamo dentro a piè pari e allo stesso tempo non riusciamo a fargli parlare la lingua del presente. Sarà colpa di quel pensiero magico che ci accompagna da sempre, in un’atmosfera pagana che ogni religione sistematica non è mai riuscita a prosciugare per finire persino per alimentarsene, o magari sono stati i miti delle terre di mezzo a gettare la loro ombra su un presente rarefatto. Fatto sta che il lavorio del tempo non ha mai levigato le superfici, ma piuttosto le ha rese più rugose, maggiormente increspate e ha finito per contenere nel suo ventre una modernizzazione incompiuta; una memoria rarefatta ma persistente; una serie di fughe consumistiche e distruttive dell’ambiente e della memoria. Quello che non ci riesce di fare è dotarci di un nuovo racconto di noi stessi. E la nostra mente individuale e collettiva, si sa, realizza le emozioni e i sentimenti narrandoseli: siamo la scimmia che si parla, prima ancora di parlare agli altri; questo oggi lo sappiamo. Convivono così i frantumi, divenendo persino pezzi da collezione o da museo, o arredi urbani, quando non simulacri da esibire in case di un’aristocrazia decadente che non ha poche responsabilità per l’andamento complessivo delle cose. Le immagini del calendario 2017, “mascherone di pietra, decumano e cardini”, curato dalla Fondazione Bruno, realizzate con la solita maestria da Federico Iadarola, sono un documento impeccabile della sospensione del tempo nel nostro mondo interno e nei nostri luoghi. Se il tempo è un grande scultore noi ne abbiamo come sospeso l’opera. Il blocco sociale, civile ed economico dell’Irpinia dura da troppo tempo e la nottata non passa. Se il mascherone dal volto di un bambino sulla copertina del calendario indica il luogo della “Mammana – Levatrice – Ostetrica”, è come se quel bambino non riuscisse a nascere. La fine della società tradizionale, forzata da eventi catastrofici dopo e dall’emigrazione prima, ma sia prima che dopo dal malgoverno, ha finito col produrre una società bloccata. Dove bloccata non vuol dire ferma. I movimenti però sono “falsi movimenti”, per dirla con il titolo di un noto film di Wim Wenders. Mentre il mondo diventa irriconoscibile per lo scolorire della storia e il rarefarsi della memoria, lo sforzo di comporre un’immagine del passato per cercare di farla parlare al presente mostra di non funzionare. I quadri di un’esposizione, secondo la poetica del grande Modest Musorgskji, sono sempre più stanchi e, come accade di solito, i simboli pluriabusati non generano più significati, se non per un istante di brivido contemplativo. Per leggere il “castrum” nella maglia urbana di un paese bisogna praticamente inventarselo: e non si tratta neppure del sapore di un’infanzia perduta, secondo la malinconica affermazione di Walter Benjamin, perché di un tempo che prometteva speranza non c’è memoria. Quel tempo forse in queste terre non c’è mai stato a memoria d’uomo. L’osso del paese, secondo la cruda affermazione di Manlio Rossi Doria, di agio ai suoi figli non ne ha mai dato. Un’appartenenza sentimentale sì, ma sospesa nella fatica e nelle vie dell’emigrazione, spesso senza ritorno. Sarebbe bene non dimenticare che “lavorare” dalle nostre parti si diceva “faticare” e il lavoratore si chiamava normalmente faticatore. Basta alzare lo sguardo o guardare il paesaggio urbano dall’alto per rendersi conto di quanto sia difficile ogni individuazione e come l’identità risulti perduta. Questo potrebbe non essere così impegnativo come di fatto è se di individuazione ne emergesse un’altra; se un’inedita narrazione prendesse piede. È proprio questo che non accade e non siamo stati fino ad ora in grado di far accadere. In un mondo sospeso viviamo tra un passato che non passa, un presente rarefatto e un futuro alla cui finestra non riusciamo ad affacciarci. |