Ma la terra ce la siamo inventata noi? E abbiamo oggi reinventarcela?

Franco Farinelli ci conduce in un viaggio infinito andata e ritorno tra mente e mondo.

Di Ugo Morelli.


Hic et Nunc


Vi siete mai chiesti come si fa a farsi un’idea di una cosa che, per le sue dimensioni, non si riesce a vedere per intero? Si accettano le condizioni della conoscenza per noi esseri umani: “che noi non possiamo conoscere le cose per davvero, ma soltanto in figura, alla lettera geograficamente” (p. 51). Così scrive Franco Farinelli in un libro delle meraviglie, L’invenzione della Terra, di cui Sellerio ha appena pubblicato l’ultima edizione. Ma allora viviamo nella cosiddetta realtà o in una delle sue possibili e molteplici rappresentazioni? Se, come ci mostra con finezza di analisi Farinelli, Anassimandro, il filosofo greco del sesto secolo avanti Cristo è stato il primo a creare una rappresentazione della Terra, facendolo egli ha operato il gesto proprio di ogni conoscenza scientifica. “La sicura via della scienza”, scrive Farinelli, “consiste non nel seguire le tracce di quel che si vede in una figura, ma al contrario nel trar fuori di essa quel che noi stessi vi abbiamo messo” (p. 68). La ragione, infatti, mostra di scorgere solo ciò che essa stessa produce secondo il suo disegno. Anassimandro, creando una metafora cartografica della Terra, riduce la Terra stessa al suo “cadavere grafico”. Sarà poi un atro filosofo, secondo Farinelli, quel Kant della Critica della ragion pura, a riconoscere implicitamente la priorità di tale cadavere rispetto al corpo vivo della Terra, e a far dipendere la conoscenza stessa della Terra dalle regole della rappresentazione che noi stessi ci diamo. Una perdita? Possiamo considerare una perdita quella che produciamo con la messa a punto di una rappresentazione conoscitiva del mondo? Una perdita della presa diretta sul mondo?

È stato T. S. Eliot, grande poeta, a chiedersi con i suoi versi: “Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo? Dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo? Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione? I cicli del Cielo in venti secoli ci portano più lontani da Dio e più vicini alla polvere”. Farinelli assesta una sottile e quanto mai opportuna critica alla cosiddetta filosofia della post-modernità, allorquando essa pretende di individuare una differenza tra moderno e postmoderno nel fatto che mentre nella modernità la mappa è la copia del territorio, nella postmodernità il rapporto sarebbe rovesciato: per la prima volta il simulacro (la tavola, la rappresentazione geografica) precederebbe il territorio. Farinelli commenta: “Come dire allora che già Kant sarebbe postmoderno, per tacere di Anassimandro”. Se così fosse “il più postmoderno di tutti sarebbe Cristoforo Colombo: così tra l’inizio della modernità e la postmodernità non vi sarebbe più nessuna differenza, la prima sarebbe la seconda e viceversa. Con Colombo, infatti, la rappresentazione geografica (la tavola, la mappa) prende il posto del mondo , ricomprende ed assorbe tutto ciò che esiste: la carta, cioè lo spazio, il primo degli strumenti della modernità, che proprio con Colombo si afferma” (pp. 69-70). Come già si può intuire, quello di Farinelli non è solo un rigoroso argomentare geografico: siamo di fronte a un pensiero, il suo, che non si piega alla mortificazione dei confini disciplinari né al rigor mortis degli steccati accademici. Intervengono nella sua narrazione arcipelaghi di punti di vista, geografie affettive e dati oggettivi, epistemologia e psicologia dell’osservatore, per condurre il lettore in una vera e propria esplorazione, fino al punto di far pensare alla geografia come un viaggio infinito andata e ritorno tra mente e mondo. Noi, spesso, siamo come i marinai di Colombo, che sono nella condizione di credere “di vedere terra soltanto perché sono convinti della sua esistenza in quel punto, e sono convinti dell’esistenza della terra in quel punto soltanto perché l’hanno vista sulla carta, soltanto perché è la carta a dirlo” (p. 72). Se si vuole comprendere qualcosa di chi siamo e come vediamo il mondo bisogna leggere, soprattutto, il capitolo dieci del libro di Farinelli e sognare che l’autore possa accompagnarci in un luogo guidandoci con la sua prosa ammaliante. Il luogo è il Portico dell’Ospedale degli Innocenti, la prima architettura costruita secondo il principio prospettico moderno da Brunelleschi. Scrive Farinelli: “Se noi crediamo che più le cose sono lontane e più sono piccole, più sono vicine e più sono grandi, è soltanto perché siamo moderni, e soltanto perché vi sono stati un secolo e una città (il Quattrocento e Firenze) che hanno inventato un modello terribile, pervasivo, onnicomprensivo, il quale in epoca moderna avvolgerà tutto il globo: la prospettiva lineare, cioè il punto di vista spaziale…..” (p. 77). “E davvero è straordinario come alla fine, tutto sommato, la storia della conoscenza del mondo è una storia in cui due globi, due palle, due sfere, (quella della terra e quella del nostro occhio) facciano tanta fatica a riconoscersi, a mettersi in contatto, per così dire, e a guardarsi come davvero sono”. Da allora l’occhio diventa autonomo e quel divorzio tra gli occhi e gli altri sensi diventa sempre più insanabile. Abbiamo per quella via colonizzato il mondo e il modo in cui ce lo immaginiamo. Almeno dall’età di Pericle in avanti, colonizzare significa non solo occupare materialmente una porzione di Terra, ma anche colonizzare a distanza tramite i modelli mentali che adoperiamo. Il formidabile modello mentale della prospettiva è divenuto il modello con cui inventiamo la Terra: “il più completo e totalitario che esiste, proprio perché è insieme un modello di costruzione del mondo, di percezione del mondo, di rappresentazione del mondo. Di qui la sua straordinaria potenza”. (p. 95). Condotti per questa via narrativa avvolgente giungiamo con Farinelli fino alla globalizzazione. Qualunque cosa significhi globalizzazione, dice l’autore, vuol dire che non possiamo, oggi, più contare sulla mediazione cartografica, perché le direzioni non corrispondono più a relazioni fisse tra una parte e l’altra e siamo oggi nella condizione di dover urgentemente iniziare a reinventare la Terra stessa “attraverso altre logiche e altri modelli, anche se oggi è molto più difficile orientarsi nel pensare in nome di tutti gli esseri umani che tenendosi per mano continuano a girare in tondo e sono l’umanità” (p. 154).