Liberarsi col linguaggio. Daniele Del Giudice al Museo Caproni
Di Ugo Morelli. Hic et Nunc "Venire al linguaggio” è una delle espressioni usate nel tempo da Daniele Del Giudice, in grado di comunicare efficacemente uno degli aspetti salienti della sua ricerca letteraria e della sua poetica. Come recita una frase di uno dei suoi libri, Mania: “Mi piacerebbe condurla fino a quel punto in cui si smette di capire, si smette di immaginare, io vorrei condurla dove si comincia a sentire”, per Del Giudice narrare vuol dire condurre se stesso e il lettore verso il linguaggio. Una conduzione che si fa diffusamente asciutta da ogni concessione, limpida e essenziale, e allo stesso tempo in grado di cogliere il senso profondo degli oggetti e le pieghe più intime del sentire. Se la narrativa del secondo novecento e dell’inizio del terzo millennio ha avuto un cantore che ha colto l’intima essenza del tempo e ha descritto il senso della nostra condizione, questa è l’opera di Del Giudice. Senza pretese e senza insistenze, entrando sempre da una porta discreta, i romanzi e i racconti dell’autore ci portano ad aprire finestre di comprensibilità originali e ci collocano nel tempo e nelle cose come è difficile che accada con altri scrittori. Anche la cadenza parca delle uscite dei suo scritti sembra avere il ritmo necessario a capire e a sentire il tempo prima di provare a narrarlo. L’amore e la passione per il volo sono tra i motivi più diffusi dell’opera narrativa di Del Giudice. Pilota egli stesso è stato un attento visitatore del Museo Caproni di Trento, dove ha trascorso parecchio tempo a osservare e analizzare gli aerei esibiti e, in particolare, l’aerosilurante trimotore SM79. Il volo e la tecnica degli aerei sono, nella vita e nell’opera, un indicatore della accurata attenzione che egli ha riservato agli oggetti e alla tecnologia, come espressione antropologica ed esistenziale di noi esseri umani nel secolo breve. Del Giudice ha posto le caratteristiche della fine del secolo in tensione con il suo inizio e spesso ha sostenuto che il secolo ventesimo è iniziato con le stesse problematiche con cui poi si è concluso. Si pensi solo al tema della qualità. Con quel tema il secolo ventesimo si apre e basterebbe il capolavoro di Robert Musil per darne conto. Con quello stesso tema il secolo si chiude, con prolungamenti nel terzo millennio. Con la qualità noi facciamo i conti nella vita e nel lavoro, negli ambienti in cui viviamo e nel nostro mondo interno. Nella qualità possiamo perderci e ritrovarci. In Staccando l’ombra da terra, uno dei suoi libri che fin dal titolo denota la passione per il volo e gli aerei, Del Giudice scrive: “Ti perdesti una mattina in volo come ci si perde nella vita, senza rendersi conto che ci si smarrisce, scivolando a poco a poco nel non trovarsi più…..”. Dagli attraversamenti di Trieste descritti ne Lo stadio di Wimbledon, il suo primo libro, fino a Orizzonte mobile, in cui i luoghi estremi della Terra diventano materia di una poetica rigorosamente affascinante, perdersi e trovarsi, ma forse più perdersi, per Del Giudice sono temi essenziali. Così come sono gli oggetti e la loro capacità di parlare di noi e di essere fonti di significato a rappresentare un motivo costante della sua narrazione. “Ogni oggetto era comportamento trasformato in cosa, e poi ritrasformato in comportamento; questo sì che assomigliava al mio mestiere, in fondo coi libri uno fa più o meno lo stesso”, scrive nel suo libro tradotto in molte lingue, Atlante occidentale. Il volo come metafora della vita è per Del Giudice motivo di profonda analisi letteraria e poetica della tecnica. La cura con cui ha tenuto a seguire la sua passione per gli aerei e il piacere di volare è una caratteristica persino dei suoi gesti, così come l’attenzione ai rischi e agli incidenti, ai limiti dell’umano sono costanti dei suoi racconti. Il volo è per lui non solo metafora ma anche metamorfosi della vita. Così, infatti, scrive: “La metamorfosi che trasforma a ogni decollo il metallo in aeroplano e le manovre di volo in manovre della vita”: ecco, quella metamorfosi accompagna anche il modo di librarsi col linguaggio che caratterizza la ricerca narrativa di uno dei più grandi scrittori del nostro tempo. La leggerezza, così come concepita da Italo Calvino, che di Del Giudice è stato l’interlocutore principale all’inizio della sua carriera di scrittore, è, in fondo, un tratto fine e profondo allo stesso tempo della sua opera. Una leggerezza così ben espressa da un passaggio del suo primo libro, Lo stadio di Wimbledon: “Io vorrei non sentire più; vorrei andarmene, ma sono preoccupato delle formalità. L’ideale sarebbe sparire qui e riapparire giù in centro, lontano dal balbettio di fondo che viene dal corridoio, e da questa lettura quasi sullo stesso tono”. |