Lavoro e conflitto

Di Ugo Morelli.
Archivio Sezione Hic et Nunc

Il conformismo, come ha detto con la solita fulminea precisione Josif Brodskij, è la migliore arma sociale del demonio. Le premesse da cui si parte per scrivere e parlare del lavoro e dei conflitti che attraversano l’esperienza lavorativa in questo nostro tempo sono impregnate di conformismo al punto da presentarsi come indiscutibili verità. E invece sono frutto di scelte ideologiche a senso unico, così diffuse che appaiono verità, in cui molti perdono, soprattutto con la precarizzazione, e qualcuno vince, dominando le decisioni e le soluzioni. Stanno cambiando sotto i nostri occhi intere tradizioni di relazioni industriali e tradizioni quasi secolari nella regolazione dei rapporti di lavoro. Il cambiamento in sé, come si sa, è una costante. A qualificare il cambiamento è la sua natura. Ebbene di che natura è il cambiamento in atto nei modi di regolare i rapporti di lavoro? Questa domanda non riguarda solo le grandi imprese industriali come la Fiat, ma anche le realtà delle piccole e medie imprese a livello locale, dove le trasformazioni in corso sono magari meno rumorose e non finiscono sulle prime pagine dei giornali, ma non per questo sono meno importanti. La natura di quel cambiamento, tra le altre implicazioni, ne ha una che pare decisiva: la ridefinizione del senso del lavoro e di che cosa significa lavorare. Prima di essere un diritto sancito dalla Costituzione repubblicana e prima di essere considerato da un punto di vista delle regole e dei contratti; prima ancora di essere un fattore che genera valore economico per chi presta la propria opera e per chi gestisce i risultati della produzione, il lavoro è una delle principali fonti di senso e significato per la vita di ognuno di noi. Come ha riconosciuto Primo Levi: ”Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono…..”. Devono essere divenuti proprio pochi quelli che conoscono e rispettano quella verità, di questi tempi. L’indifferenza con cui si parla della ineluttabilità delle decisioni che disintegrano ogni forma di confronto e di conflitto, inteso come incontro d’idee differenti che possono produrre prospettive e soluzioni migliori, è sotto gli occhi di tutti. Non valgono criteri etici, né di giustizia sociale, di fronte alla cosiddetta libertà d’impresa basata su un liberismo a senso unico: l’impresa esibisce il fatto di essere di pubblico interesse quando incassa contributi pubblici di diverso genere e allo stesso tempo impone scelte arbitrarie e indiscutibili, liberiste e non liberali, quando decide unilateralmente della vita delle persone che in essa lavorano. Su tutto questo si rileva un elevato conformismo. Eppure sul valore e il significato del lavoro si fonda la qualità della vita non solo degli individui ma dell’intera società.