La costruzione dello svantaggio femminile

Di Ugo Morelli.


Hic et Nunc

Sembrerebbe un gatto che si morde la coda, e invece è la solita storia: le donne sono svantaggiate sul mercato del lavoro e scompaiono mano a mano che ci si avvicina ai ruoli dirigenziali. Viviamo in una società che non solo non valorizza, ma non tollera le differenze, mentre mantiene un basso tasso complessivo di produzione e inserimento di conoscenze elevate ad ogni livello del suo funzionamento. Ha ragione da vendere Antonio Schizzerotto quando dice, nell’intervista al Corriere del Trentino, che in provincia mancano persone con alta qualificazione. Non solo mancano, ma non sono richieste da una situazione delle imprese che è ferma come il tempo atmosferico di questi giorni, così paurosamente bloccato sulla siccità. L’assenza di innovazione diffusa e di trasformazione necessaria, mentre tutto cambia, fa davvero impressione. La costruzione dello svantaggio ha le sue tappe ben riconoscibili, come emerge anche dal rapporto sull’occupazione in Trentino. Possiamo pure dissertare per comprendere se l’esclusione e lo svantaggio femminile siano dovuti al fatto puro e semplice di essere donne o al fatto che le donne scelgono di studiare soprattutto lettere, scienze della formazione, o scienze sociali. La domanda diventa: come mai quelle facoltà si femminilizzano vistosamente? Allora, arretrando come gamberi, potremmo arrivare a concludere che le ragazze arrivano all’università con capacità inferiori, per poi, di lì a un passo, sostenere che sono inferiori in quanto a intelligenza e a capacità di apprendere. Avremmo così confermato il pregiudizio storico e sostenuto una palese falsità. Chiunque lavori in università sa che, a parità di condizioni, oggi non vi è paragone tra la qualità del rendimento delle studentesse e degli studenti. Le prime sono decisamente più motivate e realizzano tesi di laurea, triennali e magistrali, di valore evidentemente più alto. C’è un humus di fondo con cui facciamo i conti, e li facciamo male: la presunzione culturale e relazionale di inferiorità femminile. Da lì si dipartono poi i palliativi come le quote rose; gli orientamenti familiari a indirizzare le ragazze verso certi tipi di studi; la noncuranza della tutela della maternità come fosse solo un fatto femminile; e, dulcis in fundo, l’implicita e diffusa pratica dei figli attribuiti alle mamme, in quanto a educazione, cura e organizzazione del tempo. La fatica di lavorare per le donne è evidente: non nel senso che hanno difficoltà a lavorare, ma in quanto devono strappare la possibilità di farlo ricorrendo a mille tattiche e a sistemi di aiuto che loro stesse organizzano, senza i quali devono rinunciare alla libertà di scelta. Se lavorano, la disparità di trattamento retributivo con gli uomini è evidente e determinante. Lo svantaggio lo costruiamo noi e i suoi costi sono sotto gli occhi di tutti. Ma per ora ci voltiamo dall’altra parte, anche un po’ infastiditi da quella che spesso si definisce la “solita questione”. Sì, certo, ma del tutto irrisolta.