L. Vozza/G. Vallortigara, Piccoli equivoci tra noi animali

Capirci tra noi e con gli altri animali


Di Ugo Morelli.


Hic et Nunc

L’auspicio che ci cresca “nella pancia una piccola macchina per lo stupore” è ampiamente soddisfatto alla fine della lettura del libro di Lisa Vozza e Giorgio Vallortigara, Piccoli equivoci tra noi animali. Siamo sicuri di capirci con le altre specie?, appena pubblicato da Zanichelli. Non spaventiamoci: la frase dello scrittore Paolo Nori che gli autori riprendono all’inizio del libro è una metafora. Appunto. Si tratta di quella forma linguistica e cognitiva a cui facciamo così spesso ricorso quando pratichiamo una delle nostre costanti modalità di stare al mondo e di leggerlo: l’antropomorfismo. Proiettiamo sugli altri animali e sulle cose il nostro modo di essere e applichiamo loro in continuazione le nostre “etichette umanoidi”. Così il koala abbracciato a un albero sarebbe, secondo noi, un tenero pigrone; e il delfino sorriderebbe. Non stanno così le cose, perché il primo è un animale incapace di sudare e nel fresco contatto col tronco trova refrigerio a quaranta gradi all’ombra, e il secondo non ha i muscoli facciali con cui noi esseri umani esprimiamo le emozioni. Questi sono solo due esempi dell’ampia gamma degli equivoci che il libro di Vozza e Vallortigara indaga. Ma allora cosa ci svela la piccola macchina per lo stupore? La bellezza della trama narrativa del libro sta nel fatto che mentre siamo portati a capire qualcosa degli altri animali, stiamo di fatto e allo stesso tempo capendo qualcosa di più di noi stessi. Bisogna dire che questa è una efficace consuetudine nei risultati della ricerca di Giorgio Vallortigara. Egli, con rigore garbato continua a dichiarare che si occupa, come di fatto fa, di altri animali e non di animali umani, ma i suoi sono, tra l’altro, sempre risultati in controluce, effetti di sponda, e alla fine ne sappiamo più di noi stessi leggendo delle altre specie. Non solo perché siamo parte della stessa evoluzione, ma anche perché una delicata ironia ci fa sorprendere e ci spiazza, fino a volte a sorridere delle nostre presunzioni, dei nostri autoinganni, delle nostre esibite specialità. Ne rimane, forse, solo una: siamo quelli che studiano queste cose e se le raccontano, costruendo quelle provvisorie e complicate impalcature che sono le teorie scientifiche o i luoghi comuni. Certo, non sappiamo se, con codici a noi inaccessibili, in un formicaio non vi siano sofisticati laboratori di ricerca sugli umani e se, studiando noi, le formiche non comprendano meglio se stesse. Ci sembra inverosimile, ma chissà. Se c’è un passaggio decisivo che le scienze del comportamento e le neuroscienze cognitive stanno operando in questi ultimi anni, quello riguarda il progressivo riconoscimento dell’intersoggettività. Scopriamo sempre più evidentemente che è attraverso le relazioni che ci individuiamo e diventiamo continuamente noi stessi. Come aveva pioneristicamente intuito e mostrato Donald Winnicott: “Il bambino piccolo non può esistere da solo, ma è fondamentalmente parte di una relazione”. Le ricerche neuroscientifiche, anche dopo gli studi e le applicazioni di Daniel Stern, hanno mostrato i fondamenti sperimentali dell’intersoggettività e una scoperta come quella dei neuroni specchio, come ha sostenuto recentemente lo stesso Vallortigara in un’intervista a Mente e cervello, pur dopo le dovute analisi critiche e il perfezionamento delle sue caratteristiche distintive, rimarrà una delle più importanti degli ultimi tempi. Nella conoscenza degli altri animali, in cui ritroviamo la nostra comune matrice evolutiva, così come nella stessa comprensione di noi stessi, non vi sono solo equivoci, ma anche malintesi. A produrli, guarda un po’, è sempre la nostra mente. Alcuni malintesi sono svelati elegantemente dal libro: noi umani non siamo più in alto delle altre specie in alcun albero evolutivo e, insieme agli altri organismi viventi, siamo tutti ugualmente evoluti. “Ci è chiaro che l’evoluzione non è una marcia verso la complessità, ma una passeggiata senza meta”, scrivono gli autori. Come aveva commentato Stephen Jay Gould qualche anno fa, da questo fatto possiamo trarre una depressione o un’esaltazione. In fondo una passeggiata, anche secondo l’aureo libretto di Robert Walser, La passeggiata, appunto, è una bella esperienza. Un altro malinteso, costoso e duro a morire, va in pezzi: l’idea di un dualismo tra i geni e l’ambiente, “un dualismo insensato, perché dove c’è l’uno c’è l’altro” e agiscono insieme nelle contingenze della vita. I dieci capitoli del libro si gustano uno dopo l’altro come ciliegie e conducono a qualche equivoco in meno e a una domanda legittima che non sveliamo per non limitare lo stupore del lettore interessato e curioso. Una bibliografia selezionata e una disvelante lista di tredici miti da sfatare concludono un libro che è, tra l’altro, un bell’esempio di divulgazione scientifica.