Silvano Tagliagambe su Paesaggio lingua madre, a cura di Gianluca Cepollaro e Ugo Morelli, Erickson, Trento 2014
Hic et Nunc Leggendo il dibattito sul paesaggio, che si è sviluppato con diversi interventi su questo sito, l’impressione che se ne trae è quella che ormai per taluni non sembrino più esserci punti fermi capaci di resistere all’oblio, alla cancellazione anche immediata di ciò che sembrerebbe doversi dare per acquisito. Per capire quali siano questi presupposti essenziali può essere utile riferirsi ai risultati di quella che è, indiscutibilmente, un’esperienza di punta in Italia su questo tema: la Scuola per il governo del Territorio e del Paesaggio istituita presso la Trentino School of Management. La Provincia di Trento, all’avanguardia anche su questo versante, ne ha fatto uno strumento efficace non solo di formazione sui problemi del paesaggio, ma anche di elaborazione di una visione unitaria di governo del territorio. Visione che è stata sintetizzata nei suoi punti fondamentali da Gianluca Cepollaro, direttore della scuola, e da Ugo Morelli, che ne presiede il Comitato scientifico, in un libro da loro curato, uscito l’anno scorso, a cui è stato dato un titolo accattivante: Paesaggio lingua madre. L’assunto di base, che spiega il titolo, è chiaro e diretto. “Il paesaggio è come la lingua madre. La sua presenza, tacita o esplicita, riconosciuta o latente, contiene il codice originario della nostra appartenenza e ci invoca a considerarla, oltre i dualismi tra mente e natura” (pag. 13). Il motivo è semplice: “non si può essere spaesati, non si può non appartenere a un luogo, non si può non dare senso a quel luogo. […] Essere spaesati indica al massimo una dinamica transitoria tra una condizione di appartenenza e un’altra, tra un ordine simbolico relativo a un luogo e la produzione di un altro ordine simbolico emergente nell’elaborazione del rapporto con un altro luogo” (pag. 17). La conclusione da trarre è dunque che “esiste un filo diretto fra paesaggio naturale e paesaggio mentale: siamo ‘naturalmente culturali’. Così come la parola fa da ponte tra l’orizzonte del reale e l’orizzonte mentale, allo stesso modo il paesaggio fa da ponte tra noi e il mondo, presidia la nostra coevoluzione e il nostro accoppiamento strutturale con il contesto. Per questo il paesaggio è nello stesso tempo dentro di noi e intorno a noi, è un margine di connessione tra il mondo esterno e il mondo interno. Un bambino che nasce elabora il proprio mondo interno, la sua eleganza e la sua mortificazione, in ragione del paesaggio mentale che si costruisce. Bisognerebbe partire da qui per ripensare gli spazi di vita e considerare che la loro bellezza e la loro funzionalità non sono due cose diverse, ma una cosa sola” (pp. 7-8). Queste riflessioni sul paesaggio come lingua madre, costitutiva del nostro universo interiore, rendono ineludibile una domanda: che cosa succede se mancano ipotesi politiche e progettuali con cui cercare di scegliere o di influenzare le scelte riguardo agli spazi di vita, o se queste ipotesi sono incoerenti e mandano messaggi contraddittori? Disponiamo di una riposta collaudata a questa domanda cruciale: è la teoria del “doppio vincolo” (double bind) di Bateson, che esplora quelle forme di patologia comunicativa consistenti essenzialmente nell’incapacità di riconoscimento del contesto dei messaggi, e quindi nell’impossibilità di una loro corretta classificazione. L’esempio proposto dallo stesso Bateson per illustrare questo tipo di situazioni è il comportamento di una madre che invita il figlio ad abbracciarla, o al contrario lo rimprovera perché non lo fa, ma che accompagna questa ingiunzione primaria con segnali metacomunicativi, veicolati dal linguaggio del corpo, che i bambini sanno interpretare con particolare abilità e sensibilità, di resistenza e contrarietà a qualsiasi forma di contatto, e quindi orientati in senso palesemente opposto. Trovandosi prigioniero di una situazione in cui l’altra persona che partecipa al rapporto emette allo stesso tempo messaggi di due ordini, uno dei quali nega l’altro, il bambino diventa incapace di analizzare i messaggi che vengono emessi e di discriminare a quale ordine di richiesta debba rispondere. Egli non è quindi in condizione di capire cosa fare e, in seguito all’assenza di qualcosa che lo induca a scegliere una soluzione piuttosto che l’altra, è condannato a una paralisi che ne fa una sorta di asino di Buridano. Fuor di metafora, quale senso di identità, mutuata dal paesaggio, può mai sviluppare chi viene esposto a messaggi e interventi contrastanti tra loro o è indotto a pensare che, in termini di politiche del territorio, in mancanza di qualsivoglia criterio discriminante e selettivo, qualunque cosa possa andare bene? Se si pensa il paesaggio come una sorta di costume di Arlecchino, cucito con stoffe di colori e provenienze diverse, è difficile sottrarsi all’impressione che, proprio come la celebre maschera, si sia in presenza di qualcuno che, essendo privo di elaborazioni proprie, per indossare un abito, è costretto a servirsi degli avanzi dei pezzi di stoffa altrui, combinati alla bell’e meglio. Ecco, proprio questo è l’impressione che si trae da alcuni degli interventi al dibattito al quale ho fatto riferimento all’inizio: avanzi di progetti pensati ed elaborati altrove e importati qui per scopi diversi da quelli dichiarati e senza uno straccio di visione armonica e un minimo di riguardo per le specifiche esigenze del paesaggio della Sardegna. Da lingua madre il paesaggio diventa così una torre di Babele che, anziché favorire l’identità e la coesione sociale, le sminuzza in una miriade di punti di vista espressioni di interessi antagonistici e inconciliabili. Per contrastare queste tendenze bisognerebbe ricordare, con Pavel Florenskij, che “tutta la cultura può essere interpretata come l’attività dell’organizzazione dello spazio”. Nello stabilire questa stretta correlazione egli parte dal presupposto che la cultura considerata nel suo complesso, è il risultato del processo di introiezione della realtà che ci circonda, che da ambiente intorno a noi diventa realtà dentro di noi: ciò significa che il mondo per noi non è un dato di cui prendere atto e che dobbiamo limitarci a rappresentare in una sua supposta realtà autonoma, bensì un progetto che elaboriamo creando, appunto, spazi. Da questo progetto emerge e si sviluppa un paesaggio interno, simbolico e culturale, che ovviamente risente dell’impronta del paesaggio esterno, a cui si devono le alterazioni della rappresentazioni primordiali del corpo, proprio perché le immagini, le rappresentazioni interne e quelle di se stesso che il cervello costruisce nel momento in cui è intento a tracciare le mappe del suo paesaggio interiore, sono basate sui cambiamenti che hanno luogo nel corpo e nel cervello medesimo durante l’interazione fisica con il contesto ambientale. Lo «sguardo dal di fuori» dello spazio esterno ridotto alla sola visione, percezione, interpretazione, rappresentazione si trasforma così, a questo livello più elevato di consapevolezza, in simbiosi, in partecipazione, in coevoluzione, in quell’assunzione di responsabilità che deriva dalla piena coscienza che non è possibile tirarsi fuori da quello che facciamo accadere con la nostra presenza e le nostre azioni nell’ambiente in cui viviamo. Per comprendere davvero e pienamente l’affermazione di Florenskij alla quale ci siamo riferiti bisogna dunque far riferimento a questa ipotesi dell’impossibilità di poter giungere alla conoscenza del mondo esterno senza l’elaborazione dell’universo interiore e del «filtro creativo», costituito da esso, attraverso il quale passa necessariamente ogni modalità e forma di rappresentazione dell’ambiente al di fuori di noi. Entrare in questa dimensione intermedia tra interno ed esterno significa considerare il paesaggio come sede di un’azione intenzionale di conferimento di significato ai luoghi, che non ammette alcuna separazione tra la visione dal di fuori e il viverci dentro ed è basata sul recupero e la valorizzazione dell’ethos, della matrice profonda degli elementi primari dell’abitare, dei segni della natura e della storia di ogni singola comunità che permangono nel processo dell’insediamento umano. Si tratta di un richiamo di attenzione al paesaggio come origine del senso dell’abitare lo spazio, come ricerca degli aspetti primigeni e autoctoni della costituzione di una sfera pubblica, capaci, proprio perché tali, di offrirci spunti di riflessione che ci mettano in grado di sfuggire all’egemonia dei flussi di comunicazione che producono una standardizzazione delle esperienze spaziali, dalla quale deriva una modalità di spazio pubblico in cui risulta impossibile muoversi senza sentirsi in qualche modo condizionati e manipolati da interessi estranei. Per contrastare questa tendenza bisogna recuperare l’ethos, il frutto dell’opera lunga e complessa di intere generazioni che non può concepirsi se non collocata, radicata, come chiarisce l’etimologia stessa del termine, il cui significato, in origine, era “il posto da vivere”. Ogni ethos ha dunque il suo “pascolo” proprio, la sua certa dimora. Per essere, deve abitare. È proprio in virtù di questo suo radicamento che l’ethos, essendo condiviso da molti, crea legami di reciproca appartenenza che sono specifici, storicamente determinati, in quanto costituiscono lo sfondo comune attorno al quali si organizzano tradizioni, società e culture. Certo anche l’ethos cambia, ma i suoi sono tempi lunghi; si muove su onde lunghe, e comunque le sue modifiche non possono essere affidate al caso, devono essere “accompagnate” e gestite da una politica che si ponga l’obiettivo, che dovrebbe costituire il suo compito primario, di rafforzare il senso di comunità e di appartenenza, ”mediando” tra le visioni e gli interessi in gioco e facendoli convergere, invece di lasciarli imperversare liberamente. Recuperare l’ethos significa “reinventare il sacro”, per riprendere il titolo di un bel libro di Stuart Kauffman: vuol dire sforzarsi di vederlo con occhi nuovi, evitare di farne qualcosa a sé stante, ricercare una visione del mondo reale e del nostro posto all’interno di esso in cui alla spiritualità, intesa nella sua accezione più vasta, sia riconosciuta la funzione di incidere non solo nella vita dell’uomo, riempiendola di contenuto sostanziale, ma anche nei destini dell’ambiente, naturale e sociale, in cui egli vive. Vuol dire rendersi conto che il massimo grado d’intensità e di efficacia dell’azione umana è quello che riesce ad accoppiare conoscenza e volontà, razionalità e libertà e che sa guardare non solo ai destini del singolo individuo, ma in primo luogo della propria comunità d’appartenenza e poi, via via, dell’intera specie umana e, nel rispetto e in coerenza con il concetto di “coevoluzione” tra organismo e ambiente, anche del contesto complessivo nel quale siamo immersi e operiamo. Reinventare il sacro significa comprendere, come appunto non si stanca di sottolineare Kauffman, che la specie umana fa parte di un universo incessantemente creativo, dal quale sono emersi “la vita, l’agency, il significato, il valore, la coscienza e l’intero patrimonio dell’azione umana”, che il divenire persistente del “sapere, del fare e dell’inventare è il risultato in continua costruzione di noi stessi nella nostra pienezza umana”, è emergente e non predicibile. Reinventare il sacro equivale pertanto collocarsi in uno spazio intermedio tra ragione ed emozioni, tra conoscenza e volontà, tra gnoseologia, epistemologia ed etica, tra spazio esterno e spazio interno. A sostegno dell’intreccio tra queste dimensioni vi sono oggi anche le ricerche nel campo delle neuroscienze, in particolare quelle che sono valse il conferimento del premio Nobel per la medicina 2014 a John O’Keefe e ai coniugi May Britt ed Edvard Moser per la scoperta del sistema di cellule nervose che costituisce una rete, grazie alla quale il cervello dispone costantemente delle coordinate spaziali del luogo in cui si trova e si può quindi orientare. La struttura di riferimento di questa rete è l’ippocampo, che nei roditori, animali in cui esso è stato studiato in maniera approfondita, ha all’incirca la forma di una piccolissima banana che srotola vari chilometri di connessioni con una potenza di una decina di miliardi di contatti. È proprio grazie a questi contatti che la memoria diventa “nostra” (Io sono quello che sono) e che i significati neutri sono personalizzati e orientati dentro la nostra “forma di vita”, la nostra cultura e il nostro mondo. Il cuore del sistema cerebrale sembra dunque essere costituito da una struttura di limitatissima estensione ma con un’elevatissima capacità sia di interconnessioni, sia di sensibilità e di reazione anche alle stimolazioni più insignificanti. Tra il modo di concepire il paesaggio e di viverlo e il destino dell’uomo vi è dunque una connessione tanto stretta da indurre Peter Sloterdijk a sostenere, con ragione, nei suoi saggi raccolti sotto il titolo Non siamo ancora stati salvati, che “una premessa decisiva consiste nell’accettare che la storia dell’uomo debba essere compresa come il dramma silenzioso del suo creare spazi”. Senza questa capacità non vi è storia autentica e autonoma, non vi è spirito di comunità, non vi è politica: per questo, al di là delle belle parole e degli slogan, chi, seguendo la pura logica del profitto, predica l’esigenza di importare dall’esterno forme di utilizzazione dello spazio preconfezionate e estranee al «filtro creativo», costituito dalla cultura dei luoghi, contribuisce, consapevolmente o inconsapevolmente, ad allentare quei vincoli che rendono un popolo veramente libero, in quanto padrone di sé. Dimenticando (o fingendo di dimenticare) che soltanto chi «interiorizza» perfettamente le abitudini, i costumi, le memorie del suo luogo d’origine, e sulla loro base stringe durature alleanze, può dirsi veramente figlio della terra che lo nutre. |