Generatività, distruttività, conflitto e trasformazione Di Ugo Morelli. Archivio Sezione Hic et Nunc “La filosofia senza la scienza è vuota. La scienza senza la filosofia è arida” Come ognuno di noi può constatare anche direttamente, non vi è una separazione netta o un’alterità assoluta tra l’esperienza consolidata e il cambiamento e l’innovazione, ma piuttosto un processo di elaborazione a volte lento, a volte abbastanza immediato, che non è lineare ma conflittuale. Non si passa dal costituito al costituente in modo lineare e completo, come dal bianco al nero. Gli stati di definizione stabile di quanto è costituito sono, inoltre, abbastanza rari, essendo sempre almeno in parte sfrangiati e tendenti a manifestare discontinuità e nuove espressioni di prospettive inedite. Così come i processi costituenti sono intrisi delle latenze, delle influenze e spesso delle continuità resistenti di quanto è istituito. L’evoluzione, perciò, più che negli stati precedenti e successivi, si manifesta peculiarmente nei processi di trasformazione. La natura di quei processi tende a essere eminentemente conflittuale. Più elevato è il livello di creatività atteso in un processo di apprendimento, più elevata è la conflittualità che quel processo comporta. La crisi non è, quindi, una patologia dell’evoluzione sociale, ma una condizione costante della trasformazione e dell’incessante dinamica tra istituente e istituito. La nostra propensione a semplificare, nel momento in cui predomina l’esigenza di rassicurazione e l’ansia di certezza, ci porta non solo a ridurre la complessità evolutiva dei processi, ma anche a naturalizzare e reificare un aspetto del tutto, fissandolo come causa unica di effetti certi. Si crea una polarizzazione, spesso dualistica, per opposti, come accade ad esempio per la dimensione generativa e creativa, da un lato e il generato e il fatto dall’altro. La tensione essenziale, come la chiama opportunamente Thomas Kuhn1, viene posta in secondo piano e tende a scomparire a favore del suo prodotto che, da dinamico, è naturalizzato come statico dagli attori stessi. E’ come se non sopportassimo a lungo di riconoscere la nostra azione generativa costante, finendo così per risolvere la tensione in una reificazione. Non solo, ma ponendo in oblio il processo mediante il quale abbiamo generato e naturalizzato, in modo che quanto reificato (ho scritto “reificato” e il sistema di correzione automatica del computer ha cambiato la parola in “deificato”, generando un lapsus “elettronico” di un certo rilievo) vivrà autonomamente e noi non solo lo considereremo come se non lo avessimo generato noi, ma avremo perfino molte difficoltà a disporci a cambiarlo o a riuscire a cambiarlo. Riflettendo con un certo impegno sui nostri stessi movimenti mentalrelazionali, affettivi e cognitivi, si può riconoscere come tendiamo prevalentemente a trattare come opposti, intuente e istituito, generatività e distruttività. Eppure alla radice della loro origine la dimensione generativa e quella distruttiva dei processi evolutivi tendono a coincidere. Alla sua essenza, un processo generativo è possibile in quanto perturbazione e trasformazione di uno stato, di un equilibrio. Sia nell’esperienza di creazione che in quella di distruzione noi ci avviciniamo al “punto zero” ed essenziale, originario e vertiginoso, dell’inizio e della fine. Tendiamo verso quel punto per sentire la vita. Lo facciamo in condizioni estreme nell’esperienza di creazione artistica e di terrore o distruttività. Altre esperienze, come la fruizione estetica o l’amore, possono avvicinarci a quel punto. Tra la crisi e l’emergenza della trasformazione soggettiva e collettiva si colloca la potenza del pensiero del “maledetto di Amsterdam”, il marrano Baruch Spinoza. La via per portare a compimento la maturazione di un pensiero dell’immanenza assoluta passa, secondo Spinoza, per la critica alla chiusura delle filosofie della trascendenza e del totalitarismo. Si concretizza straordinariamente in Spinoza una convergenza delle due forme e strutture di pensiero, lavorando al riconoscimento di quanto Einstein sosterrà molti anni dopo: “La filosofia senza la scienza è vuota. La scienza senza la filosofia è arida”. In conflitto e cooperanti, la dimensione emotiva e quella della ragione fondano il nostro conoscere e la stessa democrazia. In questo modo Spinoza crea un paradigma della conoscenza che vede nel vincolo la condizione della possibilità, proponendo una visione potente e sovversiva della filosofia, della politica, dell’etica e del diritto. Nell’integrazione tra conflitto e trasformazione, tra istanze generative e distruttive delle relazioni e dei processi sociali, tra emozione e ragione, si ritrova uno dei sensi cruciali del pensiero di Spinoza. È proprio su questo punto che si innesta il necessario riconoscimento tra condizione di crisi e sviluppo della potenza costitutiva della crisi, evitando il tal modo un’opposizione assoluta tra dimensione istituita e dimensione istituente della realtà, tra immanenza e trascendenza. Caute, era il motto che si trova sul sigillo del teologo e filosofo Spinoza, che sarebbe bene tenere presente leggendo il suo pensiero. Dove caute non vuol dire non prendere posizione, ma saperla prendere in modo radicale e conflittuale avendo fatto un buon esame di realtà. Come lo stesso Baruch Spinoza ha mostrato con la sua esperienza, quando fece di tutto per essere espulso dalla comunità ebraica di Amsterdam, rifiutando qualsiasi compromesso con l’ortodossia rabbinica. Gli esseri umani stanno tesi nella crisi tra “io” e “altro” e non sempre riescono ad eccedere al conflitto necessario per un’efficace elaborazione della propria esperienza e, in particolare, dell’immaginazione e della creatività. Non stanno o di qua , il sociale integrato, o di là, i molti solitari. Non ci è dato di uscire dalla relazione perché non saremmo più umani e non saremmo più noi stessi. La condizione attuale è di tensione critica in relazioni in parte alienate e in parte alienanti mentre cerchiamo, anche incorporando sofferenza, le vie dell’utopia, della creatività e della socialità possibile. Non smettiamo però di essere menti incorporate relazionali, animali relazionali, che tendono a creare continuamente se stessi e il proprio mondo, ed è tutto ciò che possiamo essere. Intanto il conflitto estetico, anche lacerante ci attraversa, in quanto tentiamo di accedervi e di elaborarlo generativamente, ma non sempre ci riusciamo, per la portata densa e ampia che va assumendo, mentre siamo chiamati alla estensione della nostra socialità da ogni presente e in particolare dalla contingenza della civiltà planetaria. Ma le sollecitazioni della modernità in polvere, come opportunamente la chiama Arjun Appadurai, mentre portano alla crisi del legame sociale tradizionale, non interrompono di certo la nostra ricerca di quel legame a mutate condizioni. Con la necessaria eccedenza di creatività richiesta da questo nostro presente. Le difficoltà che incontriamo ci fanno vivere oggi la me-ness, la crisi del legame sociale, appunto, ma allo stesso tempo la distruzione di una forma ci fa tendere a generarne un’altra. Di questo soffriamo e viviamo. Non di “moltitudine”, o di “modernità riflessiva” o “liquida”, palliativi concettuosi e verbosi di chi pretende di spiegare la realtà soffermandosi alle descrizioni superficiali e apparenti. Si tratta invece di analizzare e analizzare, andando all’essenza della nostra stessa possibilità creativa e, come Paul Cézanne per la montagna di S. Victoire, stabilire una tensione con la realtà, non solo per vederla da più punti di vista, ma perché analizzando e variando si veda quello che prima non si vedeva e altrimenti non si vedrebbe. 1 Th. Kuhn, la tensione essenziale, Einaudi; Torino 2006.
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