Daniza e noi
Di Ugo Morelli.
Hic et Nunc
Che cosa impariamo dalla triste vicenda, da qualunque lato la si guardi, dell’orsa Daniza? Verrebbe da dire: sempre la stessa cosa. E allora vuol dire che non impariamo niente. O almeno non ancora. Mostriamo di non farcela ad andare in due direzioni, entrambe necessarie e indispensabili: l’alterità e la vivibilità. Sulla prima siamo ancora paurosamente fermi a decidere chi sono i “nostri” e chi sono gli “altri” che nostri non sono e devono stare lontani da noi o andarsene. Di luogo in luogo e di volta in volta spostiamo i confini, ma siamo molto impegnati in questo gioco di esclusione, fino a pratiche distruttive. E stiamo ancora e comunque parlando di altri intesi come essere umani. Mentre ci dedichiamo con affanni e impegno a questa “coazione ad escludere”, non ci accorgiamo che negli “altri” che sono decisivi per la nostra vita, senza i quali cioè non c’è futuro neppure per noi, ci sono tutti gli esseri del sistema vivente di cui siamo parte, animali e piante in primo luogo. Non riusciamo a vedere ciò che va oltre l’uomo - verrebbe da dire oltre il nostro naso - come una rivelazione di noi stessi e per noi stessi. Ci disgiungiamo dal sistema vivente di cui siamo parte, replicando ciecamente il manifesto di Pico della Mirandola che, se andava bene per riconoscere l’umanesimo dell’uomo e uscire dalla notte del Medioevo, oggi sa di una presunzione fuori tempo massimo, per giunta molto pericolosa. Noi costruiamo noi stessi e diveniamo quello che siamo attraverso l’alterità, sia con l’altro umano che col non umano. Siamo sempre stati densamente combinati con quello che chiamiamo “il resto” del sistema vivente, ma che in realtà è la condizione stessa della nostra vita. Trattare, perciò, un animale come se fosse “cosa” inerte e fungibile, che si può attivare o disattivare come un meccanismo banale, parla a noi di noi, di come continuiamo a disgiungerci dalla natura pensando di dominarla e non accorgendoci che quello è il modo per autodistruggerci. Sulla vivibilità le cose, ahinoi, non vanno meglio. Il precario equilibrio degli ecosistemi continua ad essere per noi l’arena dei nostri progetti e dei nostri propositi di uso illimitato. Vogliamo comporre gli elementi del sistema in cui viviamo con lo stesso atteggiamento infantile con cui un bambino compone un Lego. Come con quei pezzi, vogliamo posizionarli dove diciamo noi e non devono muoversi da lì. O meglio devono muoversi in base alla nostra volontà e solo a quella. Servirci quando lo vogliamo e scomparire quando e da dove ci danno fastidio. Rinnovarsi come desideriamo noi e nella misura che a noi va bene. Vogliamo persino abusarne senza preoccuparci della loro riproducibilità. E stentiamo, e molto, ad accorgerci che le cose non sono mai state così, ma soprattutto non stanno così oggi, quando siamo sette miliardi sul pianeta Terra, e ogni luogo è il mondo. Riuscirà un evento come quello di Daniza a distoglierci finalmente dal fare della nostra centralità il fine di ogni cosa?
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