Ugo Santinelli su Erba cedra e segreti amori di Ugo Morelli Hic et Nunc Ugo Morelli aveva promesso da troppo tempo il “suo” libro sul terremoto del 1962 in Irpinia, un terremoto dimenticato dai più, anche al sud. Ma cosa scrivere e soprattutto come scriverlo? Qui il dilemma sostanziale che innerva il testo. E’ ancora necessaria, dopo mezzo secolo, l’analisi di ciò che accadde e del dopo, durante la ricostruzione? Ragionare di cifre, ipotesi, norme, applicazioni secondo indicatori macroeconomici e spostamenti ed intrecci; oppure seguire e conservare flussi elettorali, biografie politiche individuali e di interessi collettivi: può tutto ciò rendere oggi utile un saggio di scienze sociali? Basta una tesi e la sua dimostrazione per giungere ad una verità incontrovertibile? Morelli adulto, lo studioso maturo che conosciamo sa che non ha bisogno di sottoporre a critica gli accadimenti per avvicinarsi alla verità e che gli addendi in lire, anche tramutati negli euro odierni, non esauriscono e spiegano il groviglio di quel terremoto. Morelli ha già la sua verità, senza bisogno di spezzettarla e poi riunificarla in una sintesi definitoria. La verità è già dimostrata, perché è la sua, in modo incontrovertibile. Tanto basti e neppure ancora. Se l’Erba cedra è un’autobiografia senza necessaria autorizzazione, l’autore deve proteggere la materia fondante ed iniziale del narrato. Difenderla con un camuffamento, con specchi ingannevoli. Come in ogni autobiografia, l’autore ricorda e riguarda nell’oggi quel che ha vissuto in passato, soprattutto il punto di stacco dell’adolescenza che coincise, anno più, anno meno, con il distacco dalla sua terra che aveva scoperto di stagione in stagione, l’allontanarsi da quella prima, originaria cosmologia elencata, nome per nome, singoli, a coppie o per gruppi familiari, posti prima del testo: i veri interpreti dei personaggi che poi scopriremo. Morelli sceglie di camuffarsi sotto i linguaggi diversi, li adotta o ne annuisce in presenza. L’io narrante diventa così una donna ribelle, padrona della propria vita, dei suoi segreti amori ma che non riuscirà a riprodurla, a trasmettere della propria vita carne e sapienza. In una coazione a ripetersi, potrà sedurre i maschi, belli e poveri, oppure detentori del potere nella piccola comunità, ma senza lasciti. Una donna di quegli anni può temperare il dialetto veloce ed orale in una lingua scritta che dell’italiano ha parole ma non sintassi: quasi una traduzione automatica dal parlato in quella lingua dei dotti che lei è venuta apprendendo sulle ginocchia ( ancora carne, ossa e seduzione) di uno zio prete. La lingua dei dotti, saperla prima leggerla e poi comprendere i significati delle parole e delle azioni altrui, dei poveri e dei ricchi, sarà una sorta di arma segreta: sfoggiarla in pubblico equivarrebbe ad un’emarginazione dal cerchio comunitario. Una ribelle come lei deve saper amministrare l’autonomia, non l’esilio. Solo noi lettori, oggi con il libro tra le mani, siamo suoi complici. Ne seguiamo la vita, non come lungo un rettilineo emiliano con i fatti che si avvicinano, e poi si allontanano sostituiti da altri, ma seguendo i saliscendi delle nostre colline e le curve che avvicinano il paesaggio e lo cancellano, dopo la prossima. Un raccontare a strappi, per brevi rettilinei, spesso un andare e ritornare in tondo. La vita dei contadini irpini dopo i duri anni del dopoguerra, meglio della media ed alta Irpinia, tra miseria persistente e cellofan per la prima volta stropicciato e crocchiante, ha una spiegazione fattuale, esemplificativa, ma inconcludente nel linguaggio della protagonista. Occorre un terzo linguaggio, alto ed esplicito, tale da rendere compatibile con quel piano cronologico ciò che Ugo Morelli vuol dire oggi di quel tempo, di quella cultura contadina in rapida trasformazione. In una forma, ancora una volta, incontrovertibile perché veritiera. Ci si affida alla lingua del saputo, l’unico personaggio che non adopera l’italiano per mostrare una posizione di potere su quel mondo di contadini. Al pari di Morelli, il saputo proviene dalla terra e non dalla città; da una terra in apparenza lontana dall’Irpinia nel mezzo degli Appennini, ma di poco sotto le Alpi, terra di mezzo e di confine tra la “grande” storia di Aquileia e quella di Venezia: il Friuli, ed è scritto fin troppo. Al pari di Morelli, il saputo non ha e non deve avere l’atteggiamento dello studioso distante che analizza con fredda ragione luoghi e fatti, come nel viaggio in Lucania dove la protagonista lo aiuta come interprete dal dialetto. Lucania riassunto pudico dell’Irpinia, un’Irpinia accanto. Potrebbe scattare la trappola della nostalgia che tante memorie hanno testimoniato negli ultimi anni, residuo imperioso delle passioni e di tutte le parole scritte, evocate e gridate a partire dall’altro grande terremoto del 1980. Perché avere nostalgia di quel mondo contadino, dove si era chiamati ad interpretare la parte del debole, del sottomesso al virile potere del padrone “di quasi tutte le cose”? Un mondo dove essere maschio coincide con un ruolo dominante, con le donne, povere e ricche, angariate e costrette a figliare perché i giovani sostituiscano gli anziani, la roba transiti generazione dopo generazione, senza che nulla cambi se non in peggio. Nonostante tutte le violenze, quelle grandi come tempeste e quelle piccole del giorno dopo giorno; nonostante i pettegolezzi e le invidie minime, abiette e tenere della povertà, sussiste un grumo di valori positivi perpetuati nella azioni concrete. Senza bisogno di catechismi, ma vissuti da sempre, da quando gli occhi e l’udito cominciano a guardare chi popola quel mondo contadino. Una solidarietà nel vivo dei fatti, una consolatoria colla invisibile, intermittente nelle azioni ma insopprimibile che rende sopportabile la vita. Due pezzi, a loro modo didascalici, mostrano ed evitano la trappola della nostalgia. Quello della fisarmonica, quando la piccola comunità, disposta geometricamente nel cerchio dell’aia, vede irrompere il “padrone di quasi tutte le cose”, miserabile negli abiti e nell’animo; può, ha il solitario potere di sequestrare il momento di svago ma non intacca l’intima solidarietà di quelle persone che si concedevano un momento di festa. Come la protagonista, nelle sue ultime ore, potranno dire “il piacere che mi ha accompagnato tutta la vita, per darlo e riceverlo bisogna essere in due”. Almeno in due. Il pezzo a contrasto procede con la descrizione di una linea spezzata, una condizione dove le persone sono disposte non nel cerchio protettivo dell’aia ma per singole unità indifese, per di più colpevoli di aver rubato “cose” del padrone. Non sono più poveri con dignità. Vivere da miserabili ha annullato quel grumo di solidarietà, di aiuto reciproco. Uno dopo l’altro soccombono e sono massacrati, i corpi a pezzi punteggiano la via di fuga: perdono la vita e ciò che hanno rubato, come in un castigo divino, da vecchio testamento. Morelli ha adoperato i linguaggi più diversi per proteggere e difendere il ragazzino di allora che ascoltava le voci e i racconti degli adulti, fissi ormai nella memoria senza nostalgia. Può concedersi una melanconia “inguaribile”, come annota fin dalla prima pagina. Ma quel ragazzino gli sfugge di mano, si dimena per non essere fermato dalle mani dei genitori ed ogni pagina, chiunque ne sia il protagonista, schiocca di descrizioni minute, non importa se di un filo d’erba o di facce uniche, con quello stupore giovanile che ha solo chi vede ed ascolta per la prima volta; o per sempre. Via dall’Irpinia, prima di diventare il maturo scienziato sociale che conosciamo, ha visto il suo mondo diventare, se è possibile, più povero, indebolirsi nell’animo, nonostante le migliori condizioni materiali. Un tarlo melanconico gli enumera le illusioni per un destino migliore con i soldi dei “decreti”, gli ricorda i sudati risparmi di quelle famiglie serviti a foraggiare i nuovi padroni, quello strato sociale ipertrofico dei tecnici, variamente laureati o diplomati, posti agli snodi degli uffici, dove si parlava solo in italiano. E le contese per il Comune diventare sempre più enfatizzate per orientare, intercettare e distribuire danaro pubblico. Casmez, terremoti, calamità, fondi e piani europei sono gli snodi di quella lunga linea dove i contadini hanno poggiato speranze, e perduto sangue e carne. Senza che disillusioni e palesi malefatte diventassero, decennio dopo decennio, democratica esperienza della comunità. Ugo Santinelli |