Olivetti e noi
Di Ugo Morelli.
Hic et Nunc
Chissà perché siamo abituati a trasformare le idee in retorica approssimativa, fino a consumarle, con un nulla di fatto per poi continuare come prima senza parlarne più. Accade nella maggior parte dei casi. Un esempio è la retorica olivettiana tra sceneggiati televisivi e insospettabili estimatori. Sarà per la ragione che diceva Ennio Flaiano: “gli italiani, sempre pronti ad accorrere in soccorso del vincitore!”. Eppure Adriano Olivetti non è stato neanche un vincitore. Anzi, la sua utopia concreta è risultata perdente, per precise responsabilità, sia sul piano della forma dell’organizzazione del lavoro e del modo di essere imprenditore, sia per la perdita prima di leadership e poi di qualsiasi ruolo dell’Italia nel campo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Oggi che si fa luce su quella storia si comprendono la lungimiranza dei suoi protagonisti e gli errori fatti nell’intraprendere strade che si sono mostrate fallimentari. Hanno vinto, nella maggior parte dei casi, il provincialismo e l’arroganza nel modo di essere imprenditori. L’umanesimo manageriale di Olivetti stenta ad essere riconosciuto persino nel mondo della cooperazione, che spesso imita, anche inconsapevolmente, modelli di gestione iperliberisti. A livello di modi di intendere il lavoro e di organizzarlo, persiste tenacemente quel modello basato sul comando, sull’esecuzione e sul controllo, che Olivetti aveva concretamente sostituito con un’attenzione alla guida, all’orientamento e al riconoscimento del valore nelle relazioni lavorative. Egli era convinto che fosse l’impresa per l’uomo e non l’uomo per l’impresa, e da qui aveva tratto una precisa politica aziendale e territoriale, ponendo al centro la civiltà dell’uomo e la voglia di comunità e di territorio. Aveva profuso un forte impegno, cosa decisiva per territori come il Trentino e l’Alto Adige/Sud Tyrol, nel creare connessioni fra le valli e la città, con investimenti in cultura, in biblioteche, in scuole, convinto com’era che la rete tra le diversità e non la concentrazione ammassante sulla città, facesse un modello di sviluppo adeguato e desiderabile. Quello di Olivetti era uno stile e un contenuto che ci indica l’Italia come avrebbe potuto essere. Una terra fatta di comunità dialoganti è forse, fuor di retorica, un modo appropriato di pensare i nostri luoghi, in questo tempo di grandi trasformazioni. Un intreccio tra imprese attente all’innovazione e all’elevata competenza in cui si cerchi il bene vicendevole, qualità della vita sociale sorretta dalla cultura e dalla conoscenza, responsabilità sociale per la tutela e la salvaguardia dell’ambiente e dei beni comuni. Due sembrano le condizioni, oggi, per fare di una simile lezione un patrimonio di riferimento e non solo una celebrazione momentanea. La prima riguarda l’esigenza di tenersi al passo con la conoscenza applicata e la sua evoluzione, per rispondere attivamente alle sfide poste dalla sostenibilità, dalla ricerca di un nuovo modello di sviluppo, dall’invecchiamento della popolazione e delle soluzioni economiche tradizionali. La seconda è la proiezione nella civiltà planetaria: la conoscenza e l’intelligenza, infatti, non conoscono e non sopportano confini.
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