Fallimento educativo. Un esame di realtà
Di Ugo Morelli.
Hic et Nunc
A prendere certe posizioni sostenendo un punto di vista scomodo si corrono dei rischi. C’è un tempo, però, in cui forse non se ne può fare a meno. Pare questo il caso del ricorso al Tar dei genitori che si oppongono alla bocciatura della propria figlia. Un evento personale e familiare che merita rispetto e che qui è utilizzato solo come spunto per un ragionamento più ampio. Quel ragionamento ha un titolo e il titolo, scomodo e non politicamente corretto, si chiama fallimento educativo e indica la crisi profonda di un intero modo di pensare e fare educazione. Quando si ricorre, infatti, al tribunale, in quella materia vi sono stati almeno tre fallimenti. Tutti fallimenti del dialogo come via maestra per l’educazione. Dialogo indica la condizione di pensare in due, dove nessuno dei due si annulli nell’altro e nessuno dei due prevarichi l’altro. Mantenendo le differenze e le distinzioni i soggetti del dialogo, rimangono se stessi e si emancipano nella reciprocità. Quello che si realizza, se le cose vanno abbastanza bene, è un gioco circolare tra autonomia e dipendenza, in cui si riconosce che nessuno può fare a meno dell’altro e ogni “io” si individua attraverso il “non-io”. Ma allora cos’è fallito nell’educazione? Prima di parlare dei tre fallimenti vale la pena fare una precisazione. Non vi è qui alcuna nostalgia di un tempo in cui regnavano il paternalismo e l’autoritarismo, in famiglia e a scuola. Di quel tempo sono noti i costi durissimi, soprattutto per le bambine e le ragazze, ma anche per i maschi. Né pare opportuno aderire ai ragionamenti sull’ ”evaporazione del padre” in questo nostro tempo: ci sono forme dure e soft di dominio che non giustificano una tale affermazione e semmai inducono a cercare forme più opportune ed efficaci di esercizio dell’autorità necessaria. Il primo fallimento, allora, pare quello dell’educazione nelle relazioni primarie, nelle relazioni genitori-figli. Si è affermata da tempo una propensione alla tutela e alla protezione che anziché incentivare l’autonomia e la responsabilità con compiti di crescita appropriati, alimenta la dipendenza e asseconda la passività. Può darsi che vi sia qualche caso in cui uno studente merita di più della valutazione che consegue a scuola, ma nella maggior parte dei casi le cose non sembrano proprio stare così. Il secondo fallimento, reciproco al primo, è quello della scuola. L’autorità basata sulla elevata competenza di chi insegna, sia a livello di contenuto che di metodo, è in crisi. Per molte ragioni, non ultima un certo occhiolino al marketing da parte degli istituti, le soglie si sono di molto abbassate. I vincoli formali sono alti e in quei vincoli noi docenti ci riduciamo spesso al minimo operativo. I timori e le diffidenze con le famiglie, che conseguono da queste posizioni, fanno il resto. Il terzo fallimento riguarda la considerazione generale della scuola a livello governativo e sociale. Un esempio è la delega a forme di misurazione dell’efficacia educativa che riducono tutto a serie di numeri, come ha chiarito Alberto Tomasi su questo giornale, dimenticando che l’educazione è una pratica della libertà. Se è tale, è fatta certamente di contenuti, che sono però appresi tanto meglio in relazioni che coinvolgono cognizioni e affetti in contesti favorevoli.
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