Il lavoro, nonostante
Di Ugo Morelli.
Hic et Nunc
Devo dire che ci ho pensato a lungo. Poi ho deciso di scrivere, comunque, questo editoriale. Ho camminato prima per la città, in questa mattina del primo maggio. La giornata è mesta e umida. Non solo per una primavera che non arriva. Ma perché non ci sono segni di festa per celebrare quella che, nonostante tutto, è una delle esperienze più fondative della vita: il lavoro. Certo, non c’è molto da celebrare. Anzi. Ci manca una determinazione quanto mai necessaria. Ci manca una effettiva corresponsabilità sulla questione delle questioni: sempre il lavoro. Non ci mancano le parole. Tante se ne sentono, fino alla consunzione dei significati. Mi sono ostinato in questi anni, a studiare il problema con gli studenti dei corsi di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni. Abbiamo cercato di esplorare gli effetti e le ricadute della precarietà e dell’impossibilità di accedere al lavoro. Mentre emergevano dati sempre più problematici, che abbiamo presentato e discusso in ogni sede possibile, abbiamo trovato tanti volti contriti, ma poca corresponsabilità. Il sindacato, nonostante le buone intenzioni di alcuni, mostra di non riuscire a organizzare una domanda che si presenta in modo inedito. È difficile comprendere che il significato del lavoro è cambiato per le giovani generazioni. Il cambiamento è avvenuto mentre si trasformavano in modo radicale le forme del lavoro. L’oscillazione, al limite della sostenibilità, è stata ed è tra garantismo e assistenzialismo. Un progetto che agganciasse la situazione del tutto inedita non c’è stato. Le imprese hanno concorso a generare una “cultura del lavoro” come costo da evitare fino al limite paradossale di pensare che del lavoro si possa e si debba fare a meno. Le pressioni sembrano, spesso, andare nella direzione di richiedere che a remunerare il lavoro debba essere qualcun altro e non l’impresa stessa. Nelle università il problema è stato ed è a dir poco trascurato. Sono scomparsi in molti casi gli insegnamenti che si occupavano di gestione delle “risorse umane”, come furono chiamate con una definizione tremenda le persone che lavorano. La formazione è stata sovente ridotta a infermeria e pronto soccorso per riparare danni o adeguare l’offerta, con compiti impossibili. Se non cambia l’organizzazione aziendale del lavoro, innovandosi profondamente, la formazione potrà solo inseguire, e le professionalità migliori non saranno domandate né riconosciute. Il vescovo di Trento, leggo, celebra la messa in un’impresa. Un gesto importante, ma una voce chiara sulle ricadute umane e sociali della precarietà, cioè sul peccato dell’esclusione storica di dimensioni “bibliche”, non si sente provenire da alcuna parte. Intanto le cifre periodiche sulla disoccupazione giovanile raggiungono la nostra assuefazione in modo stanco e rassegnato. Le parole sono consunte. Il problema del lavoro appare chiaramente connesso ad una questione decisiva che è la giustizia sociale. Insieme al delitto dell’evasione fiscale rappresenta la ferita più profonda che stiamo infliggendo alla nostra civiltà e alla nostra Costituzione. Non è difficile comprendere come sia in gioco il nostro stesso legame sociale e la nostra vita democratica.
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