Distretto culturale? Ma dov'è
Di Ugo Morelli.
Hic et Nunc
Il turismo, senza una effettiva disposizione a cambiare se stesso e a fare un effettivo salto di qualità professionale e gestionale, parla di cultura e paesaggio solo come “risorsa da vendere” per trainare economicamente se stesso e alimentare i flussi. Né più né meno che l’orientamento a un’economia da “raccoglitori” che ha caratterizzato il settore negli ultimi venticinque anni, dopo la spinta intraprenditiva iniziale, dovuta soprattutto all’iniziativa femminile. Il distretto culturale, in questa prospettiva, continua a essere un’occasione non tanto mancata, ma neppure effettivamente intrapresa. Le ragioni sono tante. Per sintesi, come proposto in occasione dell’inaugurazione di un seminario di studi in Trentino School of Management con i direttori e gli operatori delle istituzioni culturali trentine, se ne possono considerare alcune. Ricorrendo a una serie di “ismi” che indicano null’altro che questioni critiche da affrontare, non è difficile vedere all’opera il vincolo dell’individualismo. Non si è mai, finora, riusciti a creare forme effettive e durature di alleanza tra imprese turistiche e tra queste ultime e le istituzioni culturali o di altro tipo. Molti tentativi sono falliti e, probabilmente, esiste un rapporto tra i sostegni assistenziali delle politiche economiche pubbliche e la difficoltà a far nascere strategie cooperative tra imprese. Neppure le aziende di promozione turistica sono riuscite a creare effettivi processi di partnership tra le imprese dei territori di competenza. La crisi aumenta il livello di ansia ma non pare che aiuti a far crescere la disposizione a fare insieme. Concorre a questo stato di cose un tratto distintivo della cultura delle nostre parti: il localismo. Sodale dell’individualismo, il localismo impedisce di fatto di riconoscere che il bene comune è la condizione del bene dei singoli luoghi. Alimentato da un modo di intendere la politica come consenso basato sul soddisfacimento di liste di richieste dei cittadini, il localismo taglia le vene alla prospettiva comunitaria necessaria per parlare di distretto culturale. In questa cornice l’economicismo, come si suol dire, va a nozze. In quanto mix tra un marketing, finanziato dal pubblico, e di stampo prettamente industriale centrato sul prodotto, l’economicismo tratta tutto come qualcosa da vendere. Promettendo ciò che, prima di proporlo, bisognerebbe crearlo. E solo la cultura genera l’humus per i residenti e per chi sceglie i luoghi, in grado di emancipare le comunità. Il managerialismo, quello del tutto positivo, delle sorti magnifiche e progressive, dell’eccellenza a parole, della retorica ben pagata dei soldati di ventura, è il collante del tutto e alimenta il conformismo complessivo. Per cui l’innovazione come capacità evolutiva mantenendo le distinzioni specifiche, e non come scimmiottamento imitativo, non passa da queste parti. Se si ha una cultura per vivere all’altezza dei tempi, un distretto riesce ad essere anche competitivo rispetto alle preferenze di chi sceglie di visitarlo, diversamente quello che si ha in mente è un centro commerciale e non un distretto, e quindi non nasce.
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