Disoccupazione, formazione e innovazione
Di Ugo Morelli.
Hic et Nunc
Se l’Italia piange il Trentino non ride. Potrebbe essere questo il titolo del drammatico capitolo della disoccupazione e di quella giovanile in particolare. Ci sono tre milioni di persone in cerca di lavoro in Italia, come apprendiamo dall’Istat, e la disoccupazione giovanile ha raggiunto a gennaio il 38,7%. In Trentino si giunge al record negativo del 6,1% di disoccupati e il 12% di essi è in cerca di prima occupazione. L’azione delle politiche pubbliche si intensifica e cerca di far fronte al problema, almeno qui da noi. Ma siamo davanti a una questione la cui gravità è così elevata da non consentire di inventare ancora aggettivi per definirla. Anzi, il rischio è che si giunga ad una sorte di assuefazione rassegnata, da un lato per incapacità di reagire, dall’altro per l’insopportabilità del problema. Un segno collaterale è la fila di migliaia di giovani che cercano di accaparrarsi uno dei pochi posti disponibili per lavorare da McDonald’s. Il problema non è che cercano di lavorare in quell’azienda, ma che lo fanno per cinquecento euro al mese e indipendentemente dal titolo di studio e dagli investimenti che hanno fatto per la propria formazione. Di tutte le questioni che il problema richiama, ce ne sono due che meritano un’attenzione peculiare. La prima riguarda la formazione e la seconda l’innovazione. Si tratta di due questioni fortemente intrecciate. Se si vuole guardare al futuro contenendo lo sconforto, sembra necessario mettere mano alla formazione di professionalità di elevato profilo basate su un alto tasso di conoscenza. L’offerta formativa non si mostra in grado di fare questo e, in particolare, di portare la conoscenza vicino all’applicazione. Avere a che fare con laureati che, nei pochi casi in cui accade, si specializzano in percorsi formativi dedicati, significa rendersi conto del gap che sperimentano tra quello che hanno imparato fino alla laurea e quello che sarebbe necessario sapere, saper essere e saper fare per esperienze professionali all’altezza del presente. Viene da domandarsi se non si potrebbe prendere il toro per le corna e, mentre si sostiene l’economia, fare un salto di qualità nell’alta formazione riordinando l’esistente, selezionandolo se serve, ma spingendo la formazione verso progetti mirati di profilo adeguato al presente. Intrecciato con la formazione, come dicevamo, c’ è la questione dell’innovazione. Una parola che continua a suscitare ansia o a fare addirittura paura. Non si tratta, forse, in proposito, di pensare a chissà quali voli pindarici. È piuttosto necessario innestare sul tessuto esistente un insieme di capacità e competenze che sappiano prendere le imprese che già lavorano e aiutarle a proiettarsi in processi innovativi di mercati e di prodotti, di tecnologie e di organizzazione, in grado di generare un cambiamento diffuso. Quelle imprese avrebbero bisogno di competenze evolute che ora non domandano e, diverrebbero opportunità per i giovani con elevata formazione. Sembra molto difficile ma forse così appare perché e troppo semplice. Certo è che non pare possibile continuare ad accettare un’esclusione sociale e civile di poco meno della metà delle giovani generazioni, senza considerarla il problema prioritario.
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