Fare sul serio sull'offerta culturale
Di Ugo Morelli.
Hic et Nunc
A seguire il confronto sulla creazione di un processo di integrazione all’interno dell’offerta museale trentina si ha l’impressione di trovarsi di fronte a una strada irta di molteplici sofferenze. Da un lato vi sono dichiarazioni di disponibilità al dialogo più o meno esplicite, dall’altro si moltiplicano obiezioni e considerazioni di segno opposto. Con qualche cautela pare si possa ipotizzare che il problema ruoti intorno al rapporto autonomia/dipendenza che ogni istituzione mette al centro delle proprie prospettive e dei propri orientamenti. L’autonomia di un’istituzione culturale, dalla scuola ai musei, dalla ricerca scientifica all’informazione, non è un vezzo: stiamo parlando della ragion d’essere stessa della cultura nelle sue molteplici manifestazioni. Senza la libertà di pensiero e di espressione la cultura non vive e non esiste. E senza una cultura viva non vive la società: sarebbe bene rendersi conto che l’humus dell’economia è la cultura di un territorio da cui deriva la densità della conoscenza investibile. Diversamente dal ricordare tristi affermazioni di un recente passato, sarebbe bene sostenere che senza cultura non si mangia. Allo stesso tempo è necessario riconoscere la dipendenza che ogni istituzione ha dalla realtà in cui opera e dalle altre istituzioni che operano nello stesso settore o in settori affini. Eppure la parola “dipendenza” è intesa quasi sempre solo in senso negativo. Non sempre siamo disposti a riconoscere che senza dipendere da altri che sono la fonte delle nostre stesse possibilità, noi non saremmo quello che siamo. Si pensi, nella vita personale, ai genitori, o al rapporto maestro-allievo. Certo, molto deriva dalla natura di quella dipendenza. Ci possono essere dipendenze che opprimono o neutralizzano le capacità e l’iniziativa individuale, o dipendenze che escludono. Possono esservi, però, anche dipendenze che aumentano le possibilità singole e le trasformano in un processo virtuoso in cui si può giungere a risultati che da soli sarebbero irraggiungibili. La dipendenza delle istituzioni culturali dal sostegno pubblico ha fatto sì che ognuna di esse cercasse la propria via per ottenere il massimo possibile. Ciò ha portato ad una moltiplicazione dell’offerta, non sempre selezionata in base a principi di distinzione, qualità e efficienza. Che la cultura sia principalmente un investimento che una comunità fa per se stessa e per essere attraente, rende evidente l’esigenza di un investimento pubblico. Che vi sia disponibilità a cercare di alzare il livello e l’efficienza delle istituzioni, anche mediante attività di ricerca fondi, appare altrettanto necessario. La questione principale sembra, però, la disponibilità effettiva a mettersi in rete. Sarà pure un concetto abusato, come dice qualcuno, ma somiglia a un altro concetto abusato, l’emancipazione femminile: tanto ne parlammo che non ne facemmo nulla. Il problema resta ed è evidente. Mettersi in rete non vuol dire scomparire o rimetterci. Vuol dire riconoscere le unicità e distinzioni di ognuno, ridurre i doppioni, concordare la programmazione, rendere efficienti i servizi comuni a tutti, generare emulazione per le buone pratiche e, quel che più conta, integrare l’offerta alla ricerca di una qualità più elevata. Sono solo alcune premesse per quel distretto culturale evoluto che, finchè non si inizia effettivamente a crearlo, per ora resta solo un concetto astratto.
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