La cultura è davanti a noi
Antidoti contro la febbre identitaria. A proposito degli ultimi tre libri di Marco Aime.

di Ugo Morelli
Archivio Sezione Hic et Nunc

Marco Aime, Emanuele Severino, Il diverso come icona del male, Bollati Boringhieri, Torino 2009.
Marco Aime, La macchia della razza. Lettera alle vittime della paura e dell’intolleranza, Ponte alle grazie, Milano 2009.
Marco Aime, Una bella differenza, Einaudi, Torino 2009.


In ogni regime di verità che si pretende esclusivo si annida la violenza. E la violenza etica, quella che si fonda su verità ritenute indiscutibili, può essere una delle forme più distruttive tra tutte le forme di violenza. Il modo di pensare a noi stessi nell’Occidente che si autodefinisce sviluppato, e il modo dell’Occidente di pensare a se stesso, si possono riconoscere non solo nelle nostre azioni, ma nel modo in cui ci raccontiamo, diamo conto di noi. Nel duplice senso di narrarsi e giustificarsi nelle proprie azioni e nei propri comportamenti. È così che le nostre scelte si ammantano di etica, nel momento in cui vengono proposte come richieste da uno stato di necessità. In questo modo divengono sintomi di una febbre identitaria. Su quale presupposto si basa questa prospettiva, tanto diffusa da essere divenuta un tacito modo di pensare, humus ideale per scelte politiche basate sul razzismo, l’esclusione, i respingimenti e l’emarginazione di ogni diversità? Il presupposto consolidato e difficile persino da riconoscere e svelare è che esista un soggetto umano autocentrato e sovrano, completamente padrone di se stesso. Si tratta di un vero e proprio mito fondatore che tende a rinnovarsi più che mai oggi, cercando di restaurare l’idea di un individuo pienamente consapevole delle proprie scelte, in grado di rendere razionalmente conto di sé e dei suoi atti, un mito moderno che celebra un soggetto forte capace di produrre un “noi” sulla base del quale si arriva a giustificare la disumanizzazione dell’altro. Questo processo produce quello che possiamo chiamare un vero e proprio “narcisismo morale”. L’etica diviene una pura etica del sé e ne consegue la costruzione di muri di ogni tipo. La cura di sé è un’aspettativa comprensibile e giusta: il problema è perdere la tensione tra l’attenzione a se stessi e la necessità dell’altro. In quella tensione sta la possibilità di pensare diversamente l’eticità della nostra vita. Da cosa deriva quella possibilità? Dalla critica al concetto e alle prassi basate sull’autenticità che ritengono che l’umano sia pensabile e codificabile una volta per tutte e che, quindi, esista una codificazione autentica. La questione dell’umano così come quella della cultura sono questioni da pensare: anzi proprio nel pensare l’umano e la cultura sta il senso dell’essere umani. Mentre si costituiscono e destituiscono l’idea di sé e i tratti di una cultura, si genera individuazione e cultura. L’altro è la condizione di tutto questo perché è egli che ci convoca e fornisce la possibilità di individuarci e riconoscerci insieme in qualche valore. In un monologo autocentrato semplicemente non saremmo in grado di dire chi siamo; cosa che diviene possibile solo nel dialogo. Il fatto che si sia ampliata su scala planetaria la scena delle relazioni con cui dialogare può generare, e di fatto genera, ansie comprensibili. La struttura interlocutoria e dialogica che ci chiama ad essere è simultaneamente complessa e allargata, e tuttavia non possiamo fare a meno della dipendenza dalla convocazione altrui per individuarci ed esistere. In questo senso chi cerca esasperatamente le condizioni per chiudersi agli altri dipende tragicamente da loro, in quanto per difendersene consuma tutta la propria esistenza. I feticci identitari, da totem per salvaguardare la propria purezza, divengono, ironicamente, la causa della propria perdita. Noi cominciamo al margine dove comincia l’altro e di questa realtà è testimonianza la ricerca di Marco Aime, che approda in questi mesi a tre nuovi, importanti contributi di una scrittura che rompe i confini tra l’antropologia e la letteratura, per aprire finestre di comprensione del presente. Aime dà vita da tempo ad un nuovo modo di fare antropologia realizzando una narrazione basata sull’autoanalisi di osservatore e oggetto dell’osservazione. Come l’Edouard Glissant di Tutto-Mondo ci porta in casa il nostro tempo tutto intero nel giro di tre brevi testi che meritano di essere letti insieme. Ci induce ad un esame di coscienza necessario e, di fatto, a divenire antropologi di noi stessi. Lo fa ora con tre libri che escono quasi contemporaneamente e sono legati tra loro da un filo conduttore: il valore della differenza e la paura del diverso. È questo il filo di rasoio su cui ci giochiamo la nostra civiltà e rischiamo la barbarie. Con il filosofo Emanuele Severino, Marco Aime ha pubblicato: Il diverso come icona del male, per i tipi di Bollati Boringhieri. Quasi contemporaneamente sono usciti: La macchia della razza. Lettera alle vittime della paura e dell’intolleranza, Ponte alle grazie; e Una bella differenza, Einaudi. Sono tre leggeri libri, brevi e di bella scrittura, che si dovrebbero leggere insieme, uno dietro l’altro. Si può scoprire così che l’altro, l’Africa e tutte le Afriche, sono dentro di noi, sono qui e ciò che conta è come le guardiamo, che posizione prendiamo verso di esse. L’antropologo coglie l’origine dei meandri della nostra paura di fronte all’ampliamento della prospettiva di una civiltà planetaria e ci aiuta a capire le ragioni che potrebbero portarci a vedere le opportunità per tutti di quanto sta accadendo. È la responsabilità personale che Aime sollecita; è alla responsabilità di ognuno di noi che si rivolge, in particolare con le parole della Lettera alle vittime della paura e dell’intolleranza, che si stampano dentro e ci fanno pensare a noi stessi. Una vera medicina per la nostra febbre identitaria. Scopriamo così che “siamo tutti impegnati a migliorare il passato”, come verrebbe da dire osservando la propensione alla chiusura e alla celebrazione della tradizione da cui siamo circondati. Di quell’orientamento è spesso complice persino l’antropologia se si considera tutto il clima di revival etnico che utilizza come bandiera materiali quali l’”identità”, la “cultura”, la “tradizione” e via di seguito. Vi capita mai di sentire parlare oggi di politica senza che si richiami subito e a piena voce il “territorio”? Vi succede di sentire la parola sviluppo senza che chi la pronuncia si precipiti ad aggiungere immediatamente l’aggettivo “sostenibile”? Viene da rimpiangere autentici geni come il Gustave Flaubert del Dizionario dei luoghi comuni o il Karl Kraus di Detti e contraddetti. Le voragini della caduta dei significati sono riempite di aggettivi che, abusati, non significano più nulla. L’antropologia di noi nel presente proposta da Marco Aime ci interroga: saremo capaci di guardare con occhi nuovi le contraddizioni e le prospettive così rilevanti in cui siamo immersi o continueremo a persistere nei piccoli calcoli di convenienza campanilistica e localistica? Saremo capaci di progettualità e innovazione o il dominio della paura prevarrà come è accaduto negli ultimi tempi? È bene sapere e dirsi che l’identità, ad esempio, può essere intesa in almeno due modi: come una specie di arma contro gli altri che non sono dei “nostri” e come una fossilizzazione dell’esistente; oppure come la base da cui partire per andare verso gli altri e scegliere la via del dialogo per progettare un futuro fatto di differenze e vivibile per tutti. Alla stessa maniera la tradizione può essere il terreno di coltura dell’innovazione o divenire un simulacro che ci appaga falsamente perché ci distrae dalla ricerca per far vivere quella tradizione nel tempo, che vuol dire rispettarla nei fatti e non a parole e innovarla all’altezza del presente. Se si tiene conto di queste brevi considerazioni non è difficile riconoscere che è il futuro il fulcro di ogni presente. La cultura è ciò che abbiamo davanti, a partire da quel che siamo. Può darsi che agisca come freno la paura del nuovo, ma è bene sapere che non scegliamo tra cambiare e rimanere fermi: a cambiare cambiamo comunque. Tanto vale allora investire per riflettere e agire su come cambiamo, scegliendo per quanto possibile di cambiare da protagonisti e non subire il cambiamento. Questa è l’innovazione. La saggezza di Confucio ci può venire in aiuto, quando diceva: “Oggi è soltanto quel domani che ieri ti faceva tanta paura”.