Giustizia sociale e lavoro Di Ugo Morelli. Archivio Sezione Hic et Nunc Non bisognerebbe mai perdere la capacità di critica e l’attenzione a scandalizzarsi di fronte al degrado della civiltà che è sempre in agguato. Sapendo che spesso noi non vediamo di non vedere. Non vedevamo di non vedere quando l’amianto sembrava fornirci soluzioni diffuse per ogni evenienza, dalla copertura dei tetti, agli impianti e alle attrezzature delle nostre case e oltre. Ci sembra un effettivo salto di qualità quello che l’autonomia trentina fa dotandosi di una legge che mira alla protezione dai pericoli derivanti dall’amianto, avente come primi firmatari Michele Nardelli e Claudio Eccher. Una pesante eredità dell’era industriale e di comportamenti unilaterali e senza scrupoli, viene affrontata con la previsione di un importante investimento di risorse pubbliche. Dopo la sentenza di Torino che ha condannato per colpa e dolo i vertici della Eternit, si tratta del primo intervento legislativo regionale che aggiorna e rende più incisiva l'attività di bonifica, introducendo l'obbligatorietà e il sostegno pubblico della bonifica, la formazione e l'informazione sulla materia. La legge non riguarda solo la tutela della salute e dell’ambiente ma affronta la riqualificazione del patrimonio edilizio e la qualità dei nostri luoghi di vita. Vogliamo allora porci una domanda. Come accade nei processi sociali e nei comportamenti di ognuno di noi di andare nella direzione sbagliata, con un consenso diffuso, per poi accorgerci che migliaia di famiglie saranno state colpite dalla tragedia delle malattie e dal lutto causato dall'esposizione all'amianto? È quel futuro anteriore, “saranno state”, che dovrebbe farci riflettere. Possiamo accorgerci così che l’assenza di confronto e di possibilità di negoziazione sono il principale rischio e pericolo per la giustizia sociale, e possono creare conseguenze indesiderabili per molti. Siccome si tratta di una questione che riguarda il lavoro e la sua organizzazione, viene da chiedersi che cosa non funzionò nei controlli all’Eternit, così come a Marghera o alla Edison di Mezzocorona. I luoghi di lavoro fatti di autorità e partecipazione, di attività umana e ricerca di giustizia sociale mediante il confronto, non sempre sono stati luoghi salubri in cui la qualità della vita di lavoro si coniugasse con la produttività. Certamente però la possibilità di confronto e negoziazione tra datori di lavoro e dipendenti è stata una fonte di civiltà del lavoro. In quanto tale è stata anche fonte di esercizio e pratica della democrazia. Questo è forse il punto critico, tra gli altri, che dovremmo considerare con attenzione di fronte alle scelte in corso nella riforma del mercato e dei rapporti di lavoro. Posta l’importanza di superare le barriere ideologiche, rimane tutta intera la questione della qualità delle scelte. Soprattutto rispetto a un punto: l’unilateralità delle decisioni. Chi propone la riforma sostiene che vigilerà sugli abusi, e ciò è fortemente auspicabile. Lo squilibrio dei poteri senza la tutela “terza” e garante delle istituzioni non depone mai a favore della civiltà. E la civiltà del lavoro, nonostante il presente, è in buona misura la civiltà in generale. Un aspetto decisivo riguarda i modi in cui sarà valutata la motivazione economica del licenziamento. Come si valuterà la motivazione economica? Si presume che il datore di lavoro sia completamente capace di gestire la propria azienda e di valutare le capacità dei lavoratori, in modo da decidere chi deve essere licenziato. Chiunque abbia studiato le capacità organizzative delle aziende sa che le cose non stanno così. Come si fa a fare in modo che vi sia un confronto sulle scelte? Sarebbe importante che l’orientamento del datore di lavoro si dovesse confrontare con quello del lavoratore interessato. Ciò introdurrebbe, grazie a una posizione “terza”, un confronto utile a una maggio giustizia sociale e a una maggiore efficacia nella gestione aziendale. Certamente creerebbe le premesse per una maggiore civiltà del lavoro.
|