Dal liberal dirty al liberal chic?
Di Ugo Morelli.
Archivio Sezione Hic et Nunc
Non è che dopo lunghi anni di climi e prassi liberal dirty, all’insegna cioè di un’ideologia dichiaratamente iperliberista ma inconcludente nella prassi, se non per le cose oscene e, per così dire, poco eleganti, ci toccheranno adesso un’ideologia e una prassi liberal chic? La questione è di non poco rilievo perché ha riguardato anche gli stili di vita e le prassi locali, dove non sono mancate, sia nel pubblico che nel privato, sia nella cooperazione che nell’associazionismo, manifestazioni di adesione, magari imitativa, al managerialismo nazionale e internazionale. Gli esiti, in molti campi, sono sotto gli occhi di tutti. Si potrebbe fare una selezione dei fallimenti sulla base di un indicatore di supponenza managerialista. Ma si sa, l’ammissione di responsabilità e il riconoscimento degli errori non sono merce comune. Il tratto di sobrietà che ha distinto la storia dei mondi trentino e altoatesino, ne è uscito non poco turbato e messo in discussione. Anche questo concetto, la sobrietà, va usato con cautela, perché anche di questo concetto, di recente si fa abuso, consegnandolo alla macina di quel nominalismo per cui il dire sembra assolvere dal fare. Sempre dimentichi del monito dell’Alighieri che pure svetta nelle nostre piazze: “sì che dal fatto, il dir non sia diverso”. Ebbene, su alcune questioni cruciali abbiamo visto emergere posizioni che non sembrano né sobrie né appropriate al tempo in cui viviamo, nelle dichiarazioni e nelle scelte del nuovo governo nazionale. Rifletterci può essere un utile caveat per le nostre scelte e i nostri stili locali. L’evasione fiscale è forse il più evidente dei temi. Se recuperare risorse dove era immediatamente possibile può aiutare a comprendere le prime scelte del governo italiano, sarebbe importante, sul principale problema nazionale, il delitto di evasione fiscale, vedere qualcosa di più che le dimostrazioni dei finanzieri a Cortina e in via Montenapoleone a Milano. Segue la questione dei giovani e del lavoro. Ben quattro esponenti del governo hanno perso una buona occasione per tacere sul tema, mentre si attende un provvedimento effettivo. Ripetere stereotipi supponenti serve solo a volgarizzare le relazioni su una questione, quella della precarietà o dell’assenza totale di lavoro, che rischia di creare una disintegrazione sociale senza precedenti. Vi sono poi le spese militari. A meno che non vi sia chi se la sente ancora di sostenere che “più cannoni porteranno più burro”, sia l’ammontare di circa ventitre miliardi annui del bilancio della difesa, che gli investimenti per l’acquisto degli F35 e per il programma Nec per la digitalizzazione delle componenti di terra dell’esercito, non rientrano in nessun disegno strategico, ma solo in scelte “di comodo” difese dal ministro, come le definiscono perfino alcuni generali. Scelte che garantiscono la continuità di contratti e decisioni prese in altri tempi e, certamente, in altri scenari politico-strategici. L’auspico è che non solo lo stile ma anche la sostanza siano diversi su ognuno di questi punti e sul resto, proprio perché non c’è alternativa come si sente ripetere in ogni momento, e che ognuno faccia sul serio quello che va fatto, a Roma e qui.
Da Nigrizia di febbraio 2012: Italarmi / Dibattito sui tagli alla difesa
Spese disarmanti
Gianni Ballarini
Si è aperta una discussione pubblica sui costi per l’acquisto dei caccia F-35. Ma non basta. Nessuno mette in discussione il modello militare. La nostra politica estera è “armata”. Da 21 anni siamo in un conflitto perenne, e neppure ce ne accorgiamo. Ci sono programmi militari ancora più costosi dei Jsf, come il programma Nec (22 miliardi). E nessuno li contesta.
Alla fine si è rotto il silenzio. La crisi economica e la recessione hanno abbattuto il muro dell'omertà eretto in Italia sulle spese militari (23 miliardi di euro, circa). Sembrava un tabù su cui non dibattere pubblicamente. Le polemiche scatenate dai costi (almeno 15 miliardi di euro) per l'acquisto di 131 cacciabombardieri F-35 Joint Strike Fighter (Jsf ) (vedi box) hanno alimentato discussioni sui giornali, in Tv e in Rete. Con un'alzata di scudi dei guerrafondai, quelli che credono che «più cannoni porteranno più burro». Il generale Leonardo Tricarico, già capo di stato maggiore dell'Aeronautica militare, si è scagliato contro «il dilagare di tesi fondate su superficialità e pregiudizi. La critica all'F-35 sembra mirata a recidere definitivamente gli artigli alle nostre forze armate, rendendole di fatto disarmate ». Michele Nones, gran consigliere dalle "stellette" e tra le menti dell'Istituto affari internazionali (Iai), ha scritto sul Corriere della Sera: «Bisogna prevenire la guerra ideologica». Davide Giacalone, sul Tempo, mette «all'indice il paradigma culturale dei pacifismi insulsi e multicolori». Lo stesso ministro della difesa, l'ammiraglio Giampaolo Di Paola, prima di confidare all'Unità che «stiamo rivedendo tutti gli aspetti dello strumento militare e, dunque, anche i programmi e i mezzi e i piani d'investimento», nel pieno delle polemiche dichiarava: «Non capisco e non condivido questa caccia all'untore».
Tra gli untori è finito pure lui. Il generale Fabio Mini l'ha indicato come «il promotore e realizzatore di tutte le scelte politiche riguardanti la struttura delle forze armate e le spese per gli armamenti degli ultimi 20 anni». Che fossero scelte «di comodo e clientelari - continua Mini - è apparso evidente quando nessuna delle operazioni militari iniziate 20 anni fa (...) ha mai richiesto una sola delle portaerei, un solo cacciabombardiere, uno solo dei carri armati che, nel frattempo, ci succhiavano risorse». L'ammiraglio Di Paola, in effetti, è stato il direttore nazionale degli armamenti: la firma sui contratti più grossi degli ultimi anni è la sua.
Ma le sue ultime aperture e concessioni (gira l'ipotesi di una riduzione dei caccia da acquistare da 131 a 100) hanno un po' raffreddato gli umori. Anche i parlamentari del centrosinistra, tra i più critici dell'operazione F-35, paiono accontentarsi di qualche taglio. Di qualche ramo segato. Come se aprire un dossier sulle spese militari implicasse solo una visione ragionieristica. E non strategica. Perché per tutti (a destra e a sinistra) ridurre le spese militari non significa minare uno dei pilastri della politica italiana, la difesa appunto. Ma, piuttosto, orientare, selezionare gli investimenti in funzione del ruolo che s'intende avere sullo scenario internazionale.
Ma qual è questo ruolo? Quale il modello politico-economico-militare di cui anche l'F-35 è un prodotto? Quali gli scenari che obbligano ad avere 178mila uomini e donne militari, 2 portaerei e decine di fregate, 131 cacciabombardieri, 121 aerei di difesa, centinaia di elicotteri e di blindati?
Ce lo dice Tricarico: «Garantire la sicurezza del territorio e degli interessi nazionali nei delicati contesti in cui viviamo ». Che siano in Libia, Libano, Afghanistan o Somalia, poco importa. Il conflitto come operazione di pulizia globale. Detta in soldoni, è la teorizzazione dell'aggressione perenne. «Una difesa non all'altezza significa perdere la possibilità di condurre una politica estera attiva, oltre che lo status internazionale del nostro paese» (Nones). L'unico stigma per qualificarci, quindi, è il cannone o lo sganciare tonnellate di bombe. Come è successo in Libia: «Le operazioni condotte nel 2011 sui cieli libici hanno rappresentato per l'aeronautica militare italiana l'impegno più imponente dopo il secondo conflitto mondiale», ha ricordato entusiasticamente Giuseppe Bernardis, capo di stato maggiore delle forze aeree. Secondo i primi dati ufficiali, sarebbero stati sganciati 710 tra missili teleguidati e bombe, in oltre 1.900 missioni. E questa abitudine a vedere il nostro paese (dal 1991 in poi) coinvolto in operazioni militari iscrive la guerra nell'orizzonte ordinario della vita. La banalizza. Non ci assale neppure il sospetto che quelle bombe sganciate possano aver colpito indifferentemente militari e civili. Da più di 20 anni l'Italia è una vera piattaforma di guerra. E neppure più ci scandalizziamo. Abbiamo metabolizzato la necessità delle operazioni militari oltre confine.
Per questo, pochi ci hanno fatto caso. Nessuno l'ha contestato: l'ammiraglio Di Paola, a fine anno, ha blindato le missioni all'estero con uno stanziamento di 1,4 miliardi di euro per il 2012. Uno stanziamento annuale, sovvertendo la consuetudine degli stanziamenti semestrali, mettendo a riparo quella somma da eventuali crisi dell'esecutivo. «Conti alla mano, più di quanto possiamo permetterci, ma esattamente quello che vogliono da noi Nato e America», il commento sul Foglio di Gianandrea Gaiani, esperto di cose militari. Per questo, gli analisti dello Iai, in un corposo lavoro intitolato La trasformazione delle Forze armate: il programma Forza Nec, scrivono che oggi «essere protagonisti in politica estera comporta la capacità di farsi carico di parte almeno dei problemi della sicurezza internazionale e collettiva ricorrendo, se del caso, alle proprie capacità militari. Se queste capacità non esistono o non sono adeguate agli standard definiti dai paesi leader non si può certo ambire a un ruolo guida». Scomparsa l'idea strategica di pacificazione attraverso diplomazia e soft power. Contiamo come paese, quindi, solo se siamo dei Rambo ipertecnologici.
Il programma Nec prevede la digitalizzazione della componente terrestre dell'esercito. L'intero costo del progetto è stimato, secondo lo studio Iai, in 22 miliardi di euro in 25 anni (2007-2031). Più del programma F-35. Ed è solo uno dei 71 programmi di ammodernamento e riconfigurazione dei sistemi d'arma - secondo Massimo Paolicelli della Rete italiana per il disarmo - che ipotecano la nostra spesa bellica per i prossimi anni.
Chi si accontenta del ripensamento sul numero di caccia acquistabili, non ha capito che gli arsenali continuano a restare pieni.
Box: Riserva di caccia
L'F-35 Lightning II è un caccia supersonico, multiruolo, stealth (invisibile), in fase di realizzazione nell'ambito di un programma congiunto internazionale (Joint Strike Fighter) che coinvolge Stati Uniti, Gran Bretagna, Italia, Olanda, Turchia, Canada, Australia, Danimarca e Norvegia. L'F-35, uno dei due caccia di quinta generazione presenti nel mondo, grazie all'utilizzo delle tecnologie più avanzate, è il modello multiruolo più avanzato al mondo, ottimizzato per l'attacco al suolo e per sganciare bombe atomiche. Il programma è stato lanciato negli Usa nel 1996. L'Italia vi è entrata nel 1998, con il primo Memorandum firmato dal governo D'Alema nel 2002. L'esecutivo Berlusconi ha firmato il secondo Memorandum, mentre il terzo è stato firmato nel 2007 dal governo Prodi. Nel 2009 il governo Berlusconi ha deciso l'acquisto dei 131 velivoli. Il mega progetto, assegnato nel 2001 alla Lockeed Martin, prevede la realizzazione di 3.200 caccia (2.443 solo per gli Usa).
Nessuno sa con esattezza quanto verrà a costare l'aereo. La Lockeed ha reso noto le prime cifre per la vendita dei primi 30 esemplari agli Usa: i costi supererebbero i 5 miliardi di dollari, esclusi i motori. Come ci ricordano i promotori della campagna "Tagliare le ali alle armi", «questo significa che il costo medio per singolo esemplare è intorno ai 170 milioni di dollari, senza propulsori. Il 79% in più rispetto al costo (94,8 milioni) calcolato nel giugno 2006 dal Centro ricerche del Congresso Usa e il 174% in più rispetto al costo iniziale di 62 milioni previsto dalla Lockeed Martin». Anche se poi il costo vero è il mantenimento, la gestione e l'addestramento del personale.
Tutti questi soldi per un aereo non proprio affidabile. Lo stesso capo del progetto, l'ammiraglio Venlet, ha dovuto affermare che «la fase di produzione andrà per forza rallentata, visti i numerosi e gravi problemi riscontrati». Criticità evidenziate anche in un rapporto del Pentagono, intitolato Quick Look Review. Già Norvegia, Canada, Australia e Turchia hanno deciso di tirare il freno a mano e vedere che succede. L'Italia, che non dovrebbe pagare una penale molto alta per uscire dal programma (poco meno di 1 miliardo), ha finora speso 2 miliardi di euro per la fase di sviluppo e pre-industrializzazione, e circa 700 milioni per costruire la struttura di Cameri (Novara), dove dovrebbero essere assemblati i velivoli.
Box: Un bilancio austero. Ma non troppo
Il bilancio della difesa è così poco trasparente che è assai semplice il giochino delle tre carte. Il ministro Di Paola, quando ne parla, cita solo le cifre della Funzione Difesa (13 miliardi e 600 milioni di euro), ignorando il bilancio dell'Arma dei carabinieri (quasi 6 miliardi). Per l'autorevole Sipri di Stoccolma, l'Italia del nuovo millennio ha speso in media, ogni anno, circa 25 miliardi di euro. Molti di più, quindi, di quanto dichiarato ufficialmente. Gli analisti "pacifisti" di casa nostra sostengono che la cifra vera è superiore ai 23 miliardi di euro anche per il 2012. Per la semplice ragione che le spese per armamenti, nel nostro paese, si trovano ovunque, anche in capitoli di bilancio che esulano dalla difesa. Ad esempio, ci sono sistemi d'arma che vengono finanziati dal ministero dello sviluppo economico (1.673 milioni per il 2012). Oppure le missioni all'estero (1.400 milioni per il 2012) sono infilate nelle tabelle del ministero dell'economia e delle finanze.
Bisogna, quindi, usare molta cautela nel maneggiare i dati, parlando solo di stime e non di dati certi. La previsione per il 2012 presume un calo del 2,89% della spesa a bilancio.
Il calo più evidente si è avuto alla voce "investimento": quest'anno la somma destinata all'ammodernamento tecnologico dello strumento militare e alla ricerca è pari a 2.478,2 milioni di euro, con un decremento di 975,5 milioni (-28,24%) rispetto al 2011. E già nella Nota integrativa alla Legge di bilancio 2012 del ministero della difesa, presentata in parlamento ai primi di gennaio, si evidenzia la necessità di ridiscutere i programmi finanziariamente impegnativi, come quello per l'F-35. Nella Nota, si legge infatti: «Lo stanziamento di bilancio, non risultando sufficiente per sostenere la prosecuzione dei programmi di investimento già approvati in passato e per i quali sono stati assunti formali impegni anche a livello internazionale, ha comportato una revisione integrale della pianificazione pluriennale degli investimenti e degli impegni assunti, per renderla coerente con i volumi finanziari disponibili».
Ma l'austerità, per le "stellette", sembra durare solo un anno. Già dal 2013, infatti, il bilancio della difesa sfiorerà i 21 miliardi (20 miliardi e 924 milioni). Mentre nel 2014 dovrebbe assestarsi sui 20 miliardi e 710 milioni.
Tabelle: bilancio Difesa e stanziamenti previsionali
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