L'idiozia della perfezione
Di Ugo Morelli.
Archivio Sezione Hic et Nunc
Secondo l’inimitabile forza dei versi della poetessa premio Nobel, Wislawa Szymborska, scomparsa nei giorni scorsi, a noi esseri umani “resta negata l’idiozia della perfezione”. Eppure capita spesso oggi di trovarsi di fronte alla presunzione di perfezione, da parte di molti e in più situazioni. Chi di noi non cerca la certezza che ci può derivare dalla perfezione? Tutti la cerchiamo e ne abbiamo bisogno per la nostra stessa vita. La differenza, perciò, non è tra chi la cerca e chi non la cerca; ma tra chi continua a cercarla e chi pensa di averla trovata una volta per sempre e magari intende imporla agli altri. La presunzione di perfezione è, in fondo, la compagna dell’arroganza della certezza. E allora perché nei confronti in atto su molte delle scelte locali, così come del resto in quelle nazionali e internazionali, si assiste quasi sempre a posizioni che si presumono certe e perfette? Nella maggior parte dei casi non si presta attenzione e ascolto alle buone ragioni dell’altro, almeno a quella parte delle sue ragioni che potrebbero essere valide e condivisibili anche da noi. Eppure è proprio in quello spazio che stanno le principali possibilità di far funzionare le cose e di ottenere accordi sub-ottimali; gli unici consentiti, a pensarci bene. Quando si pensi ai dibattiti attuali che ci riguardano nel piccolo mondo dove viviamo, dalle successioni nel governo di istituzioni decisive come la Provincia autonoma e la Cooperazione trentina; all’evoluzione dell’Università o al governo del territorio con l’avvento delle Comunità di valle, è facile osservare come tende a prevalere la logica del tutto o niente, del bianco e del nero, della perfezione della “mia” soluzione e della fallacia della “tua”. Se ci chiediamo perché accade tutto questo le risposte possono essere molte. Prima di tutto conviene richiamare quello che ci rimettiamo a consegnarci all’angoscia della certezza: perdiamo i vantaggi di soluzioni cooperative che possono godere del contributo di molti e non rischiano la possibile cecità dell’uno. A mostrarsi costante, nella presunzione di perfezione e certezza, è comunque la convinzione che la vulnerabilità e la disposizione al dialogo siano cose per perdenti, per deboli e incerti. Ma è così? Pare proprio di no. Senza quello che i latini chiamavano “vulnus”, noi semplicemente non saremmo raggiungibili dalla presenza e dalla posizione degli altri. Non potremmo cioè contenere almeno in parte il contributo decisivo alla nostra stessa esistenza. La vulnerabilità come tratto che ci distingue e ci genera è, allo stesso tempo, lo spazio generativo del possibile, nostro e altrui. Dialogare vuol dire letteralmente pensare insieme, non nel senso della buona volontà di farlo, ma prima ancora come unica via possibile per pensare. Da soli non si pensa né si crea nulla di buono. A meno che non si sia convinti, con certezza, di essere perfetti. Ma “perfectum” in latino vuol dire morto.
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