Pane e Libertà, racconto letto da Ugo Morelli a Euromediterranea, Teatro Sociale, Trento 11 gennaio 2012
Archivio Sezione Hic et Nunc
PANE E LIBERTA’
Dedicato a Predrag Matvejevic
Era stato il nonno a fargli conoscere il pane dell’altra sponda. Veniva da Capo d’Orlando quell’uomo con le sopracciglia a balconcino e gli occhi di un nero vellutato che quando ti guardava non ne reggevi lo sguardo. Domenico Guccione non se n’era più scordato di quel sapore delicato di spezie che gli avevo invaso corpo e anima quando il nonno, che tornava da settimane di mare, tenendolo sulle ginocchia, aveva spezzato quel pane che lui non aveva mai visto prima. Lo fanno più in basso, dall’altra parte del nostro mare, gli aveva detto. È diverso dal nostro e pure il cus cus lo fanno in un altro modo. Quando cresci t’imbarchi con me e c’andiamo, vedrai come è bello, gli sussurrava il nonno nell’orecchio, accarezzandogli i capelli tagliati corti, biondi come il grano. Era di ceppo normanno Domenico e non si capiva da chi avesse preso. A parte qualche scherzo tra bambini quel gioco di colori, però, piaceva a tutti. La gente sapeva che quella terra era sempre stata senza confini, un porto di mare. Fece una carezza alla cicatrice che il nonno aveva sulla guancia, regalo di un pesce spada, e corse a giocare con un pezzo di quel pane profumato ben stretto in una mano. Proprio in quella piazzetta dove giocava da bambino lo avrebbero preso una sera di alcuni anni dopo gli squadristi fascisti, e la puzza delle loro ascelle, per una strana coincidenza, gli ricordò l’aroma del pane del nonno. Per andare alla guerra d’Africa non aveva neppure l’età, ma Domenico aveva fatto il diavolo a quattro vicino al banchetto dove reclutavano i volontari nella piazza del paese. Quando tutti i giovani presenti avevano alzato la mano con entusiasmo, lui no: erano tutte bugie, andava urlando, non ci dovevano credere, non era vero che sull’altra sponda ci stavano i selvaggi, lui lo sapeva bene, gliel’aveva detto il nonno, che li conosceva. Quella gente mangiava cose buone e il loro pane era profumato e saporito. Non gliela perdonarono quella libertà di pensiero. La sera lo presero e trasformarono i suoi diciassette anni in una fucina d’idee in rivolta, in un vulcano di trovate, che andavano sempre e comunque in direzione contraria. Non servì a nulla il tentativo di placarlo e dopo l’ennesimo discorso che aveva visto spopolarsi il bar affollato della piazza, per paura e convenienza, rimasto solo, venne preso dalla squadra di quasi coetanei che stavano volentieri dalla parte del vincitore. Nella sede del fascio bevve, Domenico, non marsala né finocchietto, ma olio di ricino e la mattina all’alba, con un mandato accompagnatorio prontamente predisposto dai carabinieri, venne imbarcato per Favignana. Come dire: per l’altro capo del mondo. E chi le aveva mai viste le Egadi; per Domenico erano solo un nome associato alla parola che gli bruciava dentro: confino. Lo accolse un basso, in via Cristoforo Colombo, umido e olezzante di muffa. Una muffa che veniva dai tufi, quelle pietre squadrate che lì spaccavano la schiena a chi le cavava, facendo dell’isola, in certe zone, una trama di buchi. La piazza però gli piaceva a Domenico. La sera era piena di gente che parlava mangiando gelato al limone al profumo dei gelsomini che erano dappertutto. Le pietre bianche risplendevano alla luna e non si capiva da dove venisse la luce. Più di tutto fu il profumo che si levava fin dalle tre del mattino dal vano basso della casa di fronte alla sua ad attirare Domenico. Era il fornaio che faceva la prima sfornata. Il profumo che lo estasiava, incredibile a dirsi, era quello del pane del nonno, quel pane che veniva dall’altra sponda e aveva un lieve sentore di liquirizia e sesamo e quella vena di cardamomo che a nord della Sicilia non si conosceva. Quando si offrì di aiutare il fornaio Domenico non sapeva come sarebbe andata a finire. Sapeva solo di avere un vulcano dentro e la voglia di fargliela vedere a chi lo aveva confinato. Imparò presto a fare il pane e quando la guerra finì si fece ascoltare dal fornaio che conosceva i pani della sponda sud, essendo stato pescatore; insieme cominciarono a fare pani diversi che andavano da Messina alla Tunisia e a venderli anche al porto. Quei pezzi di bontà, diversi per fattura e profumo, mescolarono i gusti, le sponde e le abitudini. Domenico però non si accontentò. Ci voleva ben altro per il suo vulcano interiore. Con l’aiuto del fornaio di cui era diventato socio, trasformò il basso dove aveva vissuto da confinato e ci costruì una stanza sopra. Fu così che aprì il ristorante Egadi. Le sue due figlie lo avrebbero gestito fino al ventunesimo secolo, servendo un piatto recensito perfino dal New York Times, “Sperma di tonno fritto e pane di Favignana”, mentre una di loro, oltre che fare la cuoca, insegnava la democrazia nelle scuole e l’altra, oltre a fare la cameriera, capeggiava la sezione di Italia nostra per la tutela e la salvaguardia di Favignana.
Euromediterranea, 11 gennaio 2012
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