Heinz Von Foerster e la passione della conoscenza
Di Ugo Morelli.
Archivio Sezione Hic et Nunc
Quando scendemmo dal Renon per andare a tenere insieme una conferenza alla Kolping Haus, si trattò di parcheggiare l’automobile nel centro di Bolzano. La sua curiosità e la sua meraviglia furono grandi nel considerare il funzionamento della macchina per l’emissione dei biglietti per il parcheggio. Rischiammo di fare tardi perché volle capire fino in fondo se quella fosse una trivial machine, una macchina banale, o una no-trivial machine. Era una sua distinzione, quella, a cui Heinz von Foerster teneva molto. Le prime sono macchine le cui performance sono perfettamente determinabili; le seconde esprimono almeno in parte performance imprevedibili. Una distinzione decisiva per la comprensione dei sistemi viventi, tema a cui von Foerster ha dedicato la sua vita di scienziato poliedrico e originale. Aveva avuto lo stesso atteggiamento di curiosità e meraviglia nel sistemare la lavagna luminosa a Paul Watzlawick a Bergamo, in occasione della celebrazione del decennale della morte di Jean Piaget. Quegli stessi occhi di bambino si erano illuminati di fronte alla bellezza delle Pale di S. Martino di Castrozza, quando, in occasione di un convegno, ci intratteneva con i racconti delle sue escursioni da bambino e da ragazzo sulle Alpi. Heinz von Foerster amava l’Italia e si era portato con sé le bellezze e le nostalgie della sua Austria e del nostro paese fino in California, in quel piccolo straordinario posto che è Pescadero, parte di una delle concentrazioni più straordinarie di luoghi di pensiero del mondo intero. Mente e natura, naturale e artificiale erano divenuti oggetti integrati di studio nel suo Biological Computing Laboratory, e da lì aveva formulato le sue ipotesi e si era concentrato in particolare sulla conoscenza umana frutto di una danza continua tra chi osserva e chi è osservato, tra sistemi che osservano, appunto, e osservatori. È quella danza a creare la conoscenza. Da quando esistiamo più o meno come siamo oggi, noi esseri umani ci distinguiamo, tra l’altro, per il fatto di porci continuamente delle domande. Sono domande sul mondo intorno a noi, ma anche e soprattutto domande su noi stessi e sulla nostra vita. La conoscenza e la scienza nascono da quella nostra caratteristica di specie, che fa di noi degli esseri che non solo sanno, ma sanno di sapere. Certo, con tutti i limiti e le opacità con cui ci conosciamo e conosciamo gli altri e il mondo. Quei limiti dipendono dalla nostra stessa mente e allo stesso tempo sono una delle condizioni della nostra capacità di conoscere. Se coincidessimo esattamente con la nostra essenza e con la nostra appartenenza al mondo, se fossimo solo come un ragno che costruisce la propria tela come effetto di un programma genetico per la sopravvivenza, noi non avremmo l’inquietudine delle domande e non ci metteremmo di fronte al mondo considerandolo un progetto e un’invenzione. Invece non è così. Se in parte e spesso, agiamo tacitamente e poi ci rendiamo conto di quello che abbiamo fatto, siamo però anche capaci di creare quello che ancora non c’è. Se il nostro cosiddetto libero arbitrio è messo seriamente in discussione da quello che veniamo scoprendo sul funzionamento del nostro sistema cervello-mente, siamo allo stesso tempo in grado di generare continuamente discontinuità negli ordini costituiti, nella scienza, nella politica, negli affetti della vita di ogni giorno, nella creazione artistica. Accingendoci a chiamare questa nostra distinzione con l’appellativo di “complessità”, ne ricaviamo che natura e cultura, materia e immaginazione, appartenenza tacita e creatività sono nella nostra esperienza di esseri umani un “tutto intrecciato più volte insieme”, cum plexus, complesso, appunto. Alla comprensione di alcuni dei nostri tratti distintivi così fatti ha dato una mano importante e decisiva un gruppo di studiosi che si sono ritrovati più o meno sulla stessa lunghezza d’onda verso la metà del ventesimo secolo e hanno potuto sostenersi a vicenda nel loro cammino attraverso la conoscenza dei sistemi viventi e degli esseri umani in particolare. I loro nomi, tra gli altri, sono Warren McCulloch, uno dei primi a riconoscere l’embodiment of mind, la nostra mente incarnata e il superamento del dualismo mente-corpo; Gregory Bateson con la sua attenzione all’ecologia della mente e all’interdipendenza circolare tra mente e natura; Heinz von Foerster, con i suoi studi rivoluzionari sulla cibernetica, la scienza dell’apprendimento, del controllo e dell’ordine, applicata ai sistemi viventi e all’integrazione tra biologia e tecnologia dell’informazione. Se la scienza, nella sua forma a noi nota, è basata sull’esercizio del dubbio sulle nostre stesse intuizioni e sul senso comune, come sappiamo dal sesto secolo avanti Cristo e in particolare da Anassimandro di Mileto, è proprio quella presa di distanza nel conoscere che Heinz von Foerster ha scandagliato a fondo, creando le premesse per un nuovo orientamento epistemologico. Non si può, infatti, osservare e comprendere un sistema, un fenomeno, una realtà, una situazione senza farne parte. Non si può vedere senza occhi, e gli occhi hanno le loro condizioni e i loro vincoli. Conoscere è perciò una infinita elaborazione della circolarità tra vincoli e possibilità e noi ci muoviamo in continuazione tra vedere, non vedere e non vedere di non vedere. L’integrazione del punto di vista dell’osservatore nel fenomeno osservato ha modificato radicalmente le scienze fisiche e biologiche, così come tutti gli ambiti scientifici, comprese le scienze umane. La lezione di Heinz von Foerster ha dato a questo un importante contributo, che attende di essere messo in pratica, valorizzato e sviluppato.
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