CO-I-LLUSIONE (Collusione e illusione)
Appunti per lo studio di una forma di esercizio del potere rischiosa per la democrazia.

di Ugo Morelli e Luca Mori
Archivio Sezione Hic et Nunc

Ugo Morelli
Tra le cattive forme di esercizio del potere W. R. Bion ha indicato, come è noto, il monopolio e l’esclusione. Entrambe quelle forme alimentano, in maniera sufficientemente conseguente, l’insostituibilità, che si profila come uno degli indicatori più evidenti di una leadership pericolosa e rischiosa per la democrazia. La fragilità della democrazia, nell’età dell’informazione e della prevalenza dell’immateriale, è particolarmente messa in discussione da forme di esercizio del potere che tendano al monopolio e all’insostituibilità, soprattutto se basate sul culto della personalità. È bene chiarire che il culto della personalità non coincide con il carisma, come carattere della leadership, e il dominio basato sulla spartizione, anche se iniqua, degli interessi, unitamente all’alimentazione, soprattutto mediatica, dell’illusione come fonte di consenso, non sono aspetti della leadership carismatica. Quest’ultima, se si intende definirla seppur in modo parziale e provvisorio, è una forma tra le meno fissabili con categorie certe e, comunque, procede e si afferma soprattutto attraverso processi simbolici di attribuzione. Certamente è interessata da condizioni materiali ma la sua prevalente genesi ed affermazione è prevalentemente simbolica. Due dei caratteri distintivi della cattiva forma, per la democrazia, di esercizio della leadership possono essere individuati nella collusione e nell’illusione. 
Se per collusione si può intendere fare lo stesso gioco con altri, un leader che si trovi in condizione di collusione fa lo stesso gioco con i grandi interessi che lo sostengono per l’utilità che ne deriva ai loro portatori (abbassamento della soglia delle regole e del loro valore – tasse e istituzioni tutte; spostamento dell’asse delle politiche economiche e sociali dal principio di uguaglianza e giustizia sociale a favore degli interessi di parte delle componenti sociali più forti e penalizzazione del lavoro e del suo valore personale e sociale; drenaggio di investimenti pubblici nella direzione dei poteri economici forti; condoni e operazioni consimili per favorire operazioni finanziarie vantaggiose; e altre varietà di azioni politiche consimili).
Per illusione possiamo intendere la generazione di consenso mediante comunicazioni mediatizzate ad alto impatto emotivo, con proposte apparentemente immediate e pratiche (un milione di posti di lavoro; un milione di pensione a tutti; abolizione dell’Ici). In tempi di vuoto di partecipazione per la profonda crisi della politica l’aspettativa salvifica tende a risultare particolarmente alta. L’illusione si mostra la via più veloce e non esige neppure verifica, in quanto è basata su proposte chiaramente inverosimili. Cosicché chi esprime le comunicazioni illusioniste non corre neppure il rischio del pifferaio magico in quanto si mette sempre in grado di avere una versione convertibile delle dichiarazioni fatte. Semmai sono i follower che rischiano di essere incantati e trascinati alla rovina dal leader.
Il fatto è che sia la collusione che l’illusione sono due fenomenologie decisive per ogni individuazione e per ogni legame sociale efficace. Senza giochi linguistici e operativi condivisi non vi sarebbe socialità possibile; così come non vi sarebbero generatività, creatività e innovazione individuali e sociali, senza gioco con l’inedito, con quello che ancora non c’è e a cui possiamo soltanto tendere.
Lo spazio in cui si inserisce una leadership che si affermi mediante la collusione e l’illusione è uno spazio decisivo e capace di esprimere consenso e legittimazione per il leader che ne faccia uso. Se l’uso che ne fa è responsabile e conflittuale o spregiudicato e mirante alla sola conquista del consenso, è un crinale su cui si decise la tenuta o il fallimento della democrazia.
Nella situazione italiana odierna ognuno che voglia fare lo sforzo di riflettere può valutare se la leadership dell’attuale Presidente del Consiglio, evidentemente basata sulla collusione e l’illusione, sia un rischio di fallimento o un’opportunità per la democrazia del paese.    
Luca Mori
Se guardiamo alla prima grande concezione del carisma in relazione alla legittimazione politica, elaborata da Max Weber all’inizio del Novecento, troviamo che è ancora preziosa per discutere della situazione attuale e che, tuttavia, in molte parti dev’essere integrata.
È preziosa anzitutto perché delinea in modo sottile il tipo del capo carismatico, considerato nei suoi rapporti con il seguito che deve riconoscerlo. Si ha legittimazione fondata sul carisma quando un individuo viene riconosciuto come straordinario, dotato di qualità eccezionali, dal punto di vista fisico o “spirituale” (comunque si voglia intendere l’aggettivo). Il capo carismatico, leader o duce che si voglia dire, riesce a incantare il suo uditorio; si presenta come mago, come figura dotata di eccezionale potere di fare e di trascinare; promette novità e miracoli e da lui ci si aspetta che sia in grado di farne. Tratto caratteristico del suo modo di proporsi è la dichiarata volontà di superare usanze e norme esistenti: per il capo carismatico, cioè, vale sempre il detto “così sta scritto, ma io vi dico…”. L’apparato amministrativo che il capo carismatico weberiano si sceglie non è costituito da persone selezionate in base alla loro specializzazione tecnica, né in base all’appartenenza familiare come accade nei sistemi patriarcali: la scelta delle persone destinate a ricoprire incarichi di gestione si basa piuttosto sulla loro dedizione al capo, sull’entusiasmo e sull’ammirazione che dimostrano alla sua visione e alla sua volontà.
Sembrerebbero esserci elementi calzanti con quanto accade oggi, nel momento in cui il leader di una democrazia, per quanto fragile, può farsi acclamare come capo carismatico e può richiamarsi al consenso del popolo per legittimare il proprio diritto all’uso spregiudicato del potere e ad essere legibus solutus. È però possibile scendere sotto la superficie dei fenomeni per cogliere dinamiche e aspetti che la nozione weberiana di carisma non riesce a individuare e descrivere. La storia politica del Novecento del resto, in modo sempre più marcato a partire dagli anni Venti che Max Weber non poté vedere, si caratterizza per la comparsa di figure capaci di imporre il culto della propria personalità, il che appunto non coincide propriamentecon il carisma,neppure nella concezione weberiana.
Per il tipo di uomo carismatico descritto da Weber è cruciale il momento della prova: il suo potere è precario e si decide periodicamente in base alla sua capacità di dimostrare al seguito la fondatezza delle attribuzioni di qualità che lo legittimano. Qui si presume che il seguito abbia l’autonomia di giudizio sufficiente a distinguere quando la prova è stata superata e la promessa mantenuta. Ma i governi fondati sul culto della personalità nel corso del Novecento si caratterizzano per la “resistenza” alla smentita e per la costante preoccupazione di costruire e controllare il consenso del seguito attraverso il tendenziale monopolio delle comunicazioni di massa, la distrazione del seguito con circenses e buffoni prezzolati e, in taluni casi, con il ricorso a restrittive misure di polizia.
Ciò accade con grandi differenze e con significative analogie in contesti anche molto diversi. Dopo aver visitato la Corea del Nord e il Vietnam del Nord, tornando in Romania Ceauşescu intensificò l’uso della propaganda dalla scuola alla televisione, dai teatri alle case editrici. La sua personalità era oggetto di culto perché dotata di carisma? Ci sono sempre quelli pronti a dire che il duce di turno è il migliore in tutto, specialmente quando estese reti di collusione traggono profitto dalla distribuzione di poteri esistente. Mussolini era notoriamente insuperabile nella raccolta nel grano e infaticabile in tutto il resto; Ceauşescu era il migliore tra i cacciatori, i pescatori e i teorici della politica in Romania e la moglie Elena, pur essendo arrivata alla proverbiale “quarta elementare”, pretendeva di essere celebrata come scienziata e chimica autorevole, e difatti lo fu, ricevendo i riconoscimenti accademici a cui ambiva. Durante l’ultimo discorso di Ceauşescu alla piazza, il 21 dicembre 1989, il regista del regime riprendeva con le telecamere i gruppi organizzati a supporto del capo, che sventolavano bandiere della Romania e icone-feticcio del Ceauşescu dei primi anni Settanta; a parlare dal balcone, tuttavia, era un settantenne sorpreso e inebetito di fronte ai fischi e alle inattese contestazioni. “Sedetevi in silenzio! Sedetevi in silenzio, compagni!”, gridava il dittatore, prima di annunciare a sorpresa un aumento della retribuzione minima da 2.000 a 2.200 lei (di cui avrebbero beneficiato, così diceva, un milione e mezzo di persone).
Ceauşescu non è stato il solo a far utilizzare al suo seguito immagini non propriamente aggiornate dal punto di vista dell’età. A scanso di equivoci, il suo potere non era fondato sul carisma, ma sul controllo dei media, sulla riduzione al silenzio di ogni opposizione, sulla collusione degli apparati di partito, sulla credulità o sul bisogno di stati di dominio di molti, nonché sull’invisibile rete della temutissima polizia segreta.
In democrazia è tutto più sottile e più subdolo. Anche in democrazia tuttavia – o meglio, nelle democrazie fiacche in cui per decenni non si sono curate a sufficienza l’educazione alla democrazia e al conflitto – possono comparire leader dalla biografia di gran lunga più ricca e riuscita di quelle di tutti gli altri cittadini; capaci di lavorare dormendo poche ore a notte e di ricostruire miracolosamente città o di far erigere ponti prodigiosi e altre “grandi opere”; capaci perfino di prestazioni sessuali ben superiori alla norma. Se in Romania l’immagine di Ceauşescu era in tutte le scuole nello stesso posto in cui in Italia è appeso il crocifisso, e se la giornata scolastica iniziava inneggiando al partito e al suo capo, in democrazia il leader potrà comunque avere dei supporters disposti a intonare canzoni come “Meno male che Silvio c’è…”. Probabilmente un unicum nella storia delle democrazie. E se, dopo anni e dopo essersi fatto cantare questo “osanna” anche dalle sue ospiti durante incontri privati, il capo decide che la canzone dovrà diventare “Meno male che noi ci siamo”, com’è accaduto dopo l’incidente in Piazza Duomo, la novità può essere celebrata dalle televisioni come un gesto generoso che conferma l’attenzione verso “la gente”.
A chi ritenesse che il culto della personalità si fonda e si giustifica sull’esistenza di un carisma effettivo, bisognerà ancora ricordare che tra l’eventuale carisma e il culto della personalità ci sono almeno alcuni altri elementi: squadre molto ben remunerate di prestigiatori della comunicazione che decidono il fondotinta del capo, il suo trucco, gran parte delle dichiarazioni, le immagini che possono circolare e quelle che no, le storie che devono essere raccontate e i particolari da omettere, e così via; ci sono poi giornali e televisioni compiacenti nel costruire l’immagine coerente di un leader di volta in volta applaudito o contestato, miracoloso o miracolato; ci sono sondaggisti che monitorano costantemente il seguito affinché i “maestri del raggiro” (gli spin doctors del marketing politico) possano confermarne le attese o rinforzarne paure e speranze con dichiarazioni studiate a tavolino, da far uscire al momento giusto; ci sono curatori di palinsesti che ammanniscono distrazioni e plasmano credenze, attitudini e visioni del mondo.
Facendo alcune variazioni sulla definizione weberiana di carisma, abbiamo che il “culto della personalità” consiste nell’attribuzione di qualità straordinarie (ipotetiche) a un uomo, la quale si regge sulla disponibilità di un potere mediatico ed economico talmente concentrato da far sì che il seguito – sempre più un seguito di dominati – creda e continui a credere nell’esistenza di tali qualità.