La differenza è conflittuale: E' la sua elaborazione che può generare libertà, giustizia e uguaglianza

di Ugo Morelli
Archivio Sezione Hic et Nunc

Un serrato confronto fra noi di Polemos [www.polemos.it] ha prodotto un approfondimento sul tema del conflitto che vale la pena condividere. All’origine di tutto vi è un evento, una lettera che è circolata nei giorni scorsi, in periodo natalizio, che uno di noi ha scoperto essere stata firmata da Marcello Veneziani su “il Giornale”. C’è da dire che contemporaneamente si sta svolgendo sul “Corriere della sera” un confronto fra Giovani Sartori e Tito Boeri. Al centro c’è il rapporto tra la cultura e i valori dei paesi europei, connotati dalla forte presenza di tradizioni cristiane, e la cultura e i valori della tradizione musulmana. Un tema, come si può comprendere, ad alto tasso di conflittualità, oggi. La lettera apparsa su “il Giornale” che un socio di Polemos ha ricevuto senza conoscere autore e fonte, è scritta mettendosi nei panni, si fa per dire perché il tentativo non pare riuscito, di un bambino musulmano che vede annullare festeggiamenti e rituali natalizi dalla maestra della propria classe per non offendere la sua sensibilità. L’autore della lettera, Veneziani appunto, mette in bocca al bambino cose poco verosimili, come la voglia di festeggiare, il fatto che il Natale piace anche a lui perchè si mangiano dolci e la protesta per non poter partecipare alle feste, cosa che lui vorrebbe ardentemente con l’accordo del padre. Fin qui la montatura che appare falsa con ogni evidenza fin dalla prima lettura. Scartata insieme la proposta di pubblicare la lettera sul sito di Polemos, sembra importante chiedersi che cosa significhi un testo del genere, cosa riveli, pur nella sua rozzezza. Probabilmente siamo di fronte ad una contorta forma di tentativo di negazione e rimozione del conflitto. Senza voler valorizzare l’autore della lettera con l’esempio che sto per fare, cosa che non merita, leggiamo insieme un breve passo di una lettera del 1624 di Galileo Galilei a Francesco Ingoli, riportata in Scienza e religione. Scritti copernicani, a cura di M. Bucciantini e M. Camerota, Donzelli, Roma 2009: “veramente non deve importare a un vero cristiano cattolico”, scrive Galileo, “che un eretico si rida di lui perché egli anteponga la riverenza e la fede che si deve agli autori sacri, a quante ragioni ed esperienze hanno gli astronomi e i filosofi insieme“. Scrutando il cielo il pisano aveva visto e creduto ai propri occhi, ma, ecco il “ma” dell’ambiguità, si celava ciò che egli stesso aveva visto anteponendo alle proprie scoperte la riverenza e la fede agli autori sacri. Un conflitto intrapsichico che lo porta ad abiurare ancor prima di essere costretto a farlo, per non finire sul rogo e rimanere per nove anni, gli ultimi della sua vita, agli arresti domiciliari. Il conflitto può essere negato in tanti modi, come ognuno di noi sperimenta quotidianamente. Uno dei modi è quello di ritenere che la differenza sia pacifica e che l’altro, in fondo, vuole quello che vogliamo noi e a non volerlo sono solo i cattivi. Che ogni immigrato, come la letteratura mostra, cerchi di fare di tutto per apparire come si aspettano i nativi, per essere accettato, è un fatto abbastanza diffuso, anche se dipende dalle culture e dai valori di appartenenza. Ma che si proietti su di loro l’aspettativa che i nativi hanno di non trovarsi di fronte ad alcuna differenza difficile e conflittuale, attribuendo agli immigrati null’altro che un desiderio di assimilazione, è una delle forme più perniciose di negazione sia delle persone immigrate che del conflitto. Certo, dialogare con l’altro non vuol dire mettere a tacere la propria autonomia, anzi. Allora la via è quella di riconoscere e praticare l’evidenza che la differenza, ogni differenza, è conflittuale e quello che cambia è l’intensità di quel conflitto a seconda dell’intensità della differenza delle autonomie in gioco. Da un punto di vista dell’approfondimento del tema del conflitto, siamo qui di fronte a quello che potremmo chiamare un conflitto di “terzo livello”, in quanto vi sono almeno tre livelli di negazione del conflitto stesso. Prima si nega il conflitto tra le differenze religiose e anziché considerare la possibilità di educare alla storia e all’antropologia delle religioni, si indottrina a quella che si propone come “la” religione, l’unica possibile, negando l’evidenza delle molteplici vie per elaborare il sacro che gli umani hanno creato nel corso del tempo. In effetti vi è una negazione ancora più profonda che riguarda la reificazione cognitiva e affettiva di quella che è una creazione umana, la divinità, ma in questa sede lasciamo per un momento da parte questo livello della questione. In secondo luogo si nega la differenza, trattandola come un disvalore, in nome di un’autenticità predicata e esibita, ancorché inventata. In terzo luogo si cerca di trattare le differenze come se non fossero conflittuali e cercando di neutralizzarle, all’insegna dell’idea che l’ “altro”, altro non possa volere che divenire come “noi”. Alla difficile elaborazione della differenza che è conflittuale per sua stessa natura, si cerca in tutti i modi di non accedere. È quanto si verifica nel confronto fra Sartori e Boeri sulle pagine del Corriere della sera. Sartori ha sostenuto in un editoriale che l’integrazione degli immigrati musulmani è difficile e molto impegnativa in quanto in più di mille anni le persone con quella cultura, quella fede e quei valori non si sono mai integrate in altre culture. Non solo, ma alla base di quella particolare difficoltà vi è, secondo Sartori, il monoteismo teocratico islamico che nega la possibilità stessa dell’integrazione in società dai valori liberali, delle quali rispettare le regole istituzionali e democratiche. L’esame di realtà, lucido e documentato di Giovanni Sartori, trova molte critiche nelle posizioni di Tito Boeri, il quale sostiene che chi lavora e paga le tasse in una certa realtà sociale ha il diritto di credere in ciò che vuole. È evidente che non è questo il punto centrale dell’esame di Sartori, come egli stesso ha sostenuto nella replica. L’integrazione avviene se chi si deve integrare vuole integrarsi e alle condizioni che egli stesso ritiene di accettare. Senza quella posizione non è possibile parlare di integrazione. La conflittualità profonda insita nella cultura  nei valori islamici, pur nelle differenze che vanno dall’integralismo fino all’affermazione di un’autonomia che non ammette dialogo, esige di affrontare un conflitto fra i più difficili. A renderlo ancor più difficile, se fosse possibile, tra gli altri, sono almeno due fattori. Il primo riguarda il concetto stesso di integrazione. Se l’integrazione sia un valore in sé è tutto da verificare. Una società pluralista, inedita e complessa, come quella verso la quale necessariamente andiamo, deve cercare le condizioni educative, giuridiche e sociali per il dialogo tra differenze e non concepirsi ancora come una società a dominanza in cui le minoranze devono integrarsi. Il secondo riguarda l’educazione e la plasticità delle menti umane. Se finalmente riconosciamo che il nostro complesso cervello-mente relazionale non è fissista ma plastico ed evolutivo, allora dobbiamo avviare da subito un processo che sia in grado di sostenere l’evoluzione educativa, la quale non può non essere conflittuale, che generi il cambiamento verso possibilità  di pensiero e di azione in grado di sganciare dal conformismo totalizzante e  aprire inediti spazi