Paesaggi interiori e spazi di vita. Mente e paesaggio di Ugo Morelli
Intervista di Emanuela Rossini per il giornale “Trentino”.
Archivio Sezione Hic et Nunc
Nel suo libro 'Mente e Paesaggio', Lei ci parla di 'paesaggio' come punto di incontro tra il nostro mondo interiore e quello esteriore. Secondo Lei, il degrado ambientale e la rinuncia alla bellezza, che troviamo in così tanti paesaggi naturali e urbani di oggi, che cosa ci dicono del nostro percorso umano?
Noi giungiamo al sentimento del paesaggio attraversando il senso di perdita e la malinconia di un distacco da una condizione di tacita coincidenza con l’ambiente di appartenenza. Quella coincidenza era anche fonte di smarrimento e di paura per una natura spesso ostile per una specie precaria, come tutte le altre specie, ma con una distinzione: quella di essere in grado di accorgersi della propria precarietà e della propria finitudine. In principio è stata la letteratura a lasciar emergere il sentimento della natura e dei luoghi. Mentre la crisi della vivibilità sul pianeta Terra, causata soprattutto dalla nostra specie pervasiva, è diventata sempre più manifesta ed evidente, sia la stessa vivibilità che il paesaggio hanno cambiato di segno e di significato. Oggi, più o meno diffusamente, e in alcune parti del mondo in particolare, sappiamo che la vivibilità per noi, sarà una vivibilità in alleanza con la natura, o non sarà. Il paesaggio diviene perciò non più il contorno ma il nostro spazio di vita.
“Facciamo parte del tutto e da questo tutto dipende la nostra vivibilità”. Quali sono le condizioni per vivere pienamente queste sue parole? Vede segnali positivi che Le fanno pensare vicino il giorno in cui l'essere umano sappia rinunciare al proprio ego?
Spesso il massimo della consapevolezza è l’inizio dell’oblio. Per cui sapere che le cose stanno in un certo modo non vuol dire automaticamente che siamo disposti a cambiare i nostri comportamenti. Tendono a vincere alcune modalità, purtroppo prevalenti: la sindrome del “dopo di te”: comincia prima tu a cambiare e poi lo farò io; la tendenza difensiva: “non nel mio giardino” ma in quello degli altri si può, anzi è necessario; il rimando ad altri: “ci penserà qualcun altro”. Certo, i segnali positivi non mancano. Ci vogliono, un responsabile esame di realtà e il massimo di investimento in educazione, per evitare i rinvii. Quell’esame di realtà dovrebbe riguardare prima di tutto l’”ego”. Il nostro “io” non è quell’entità razionale e compatta che avevamo pensato. È piuttosto una federazione di istanze anche in conflitto tra loro. Ecco, bisognerebbe iniziare da una lettura più realistica delle nostre stesse contraddizioni e cercare soluzioni sub-ottimali ma più efficaci di quelle idealistiche, ma vuote.
I momenti di crisi portano spesso gli individui inevitabilmente a chiudersi, a proteggersi, a perseguire i propri interessi. Il contrario di ciò che in un certo senso scrive Lei quando parla della "fragilità e dell'incompletezza" come le condizioni per creare il nuovo. Ma come evitare la paura?
Nella ricerca su cui il libro si basa è dedicato ampio spazio a due temi: le difese e la paura. Bisogna fare sul serio su questi due aspetti della nostra esistenza e della nostra esperienza. Le difese, se esistono, hanno quasi sempre le loro buone ragioni; in primo luogo perché noi tutti dipendiamo dalla nostra storia e dalla forza dell’abitudine. Cambiare è perciò molto più impegnativo di quanto si possa immaginare. E tuttavia è possibile. Richiede attenzione all’elaborazione delle difese e alla ricerca e messa in evidenza di alternative vantaggiose. Cambiare richiede cura dell’apprendimento e dell’educazione. Per la paura vale una riflessione analoga. Non si tratta di evitare la paura. Bensì di farla lavorare elaborandola in modo generativo. Fragilità e incompletezza sono ancora parola “negative” nel nostro vocabolario, eppure indicano due tratti di ciò che siamo e di come siamo fatti. È necessaria una cultura che riconosca che solo perché siamo fragili e incompleti possiamo essere generativi e inventare noi stessi e l’inedito, quello che ancora non c’è ed è più che mai necessario.
Come agisce una terra natale distante nella costruzione del proprio paesaggio interiore?
Si vive, come dicono gli alpinisti, costantemente “a mezza parete”. Sospesi tra un mondo di cui si ha nostalgia ma che non esiste più, perché nel frattempo è cambiato, e un mondo che al massimo può essere ospitale, i cui timbri, odori, sapori e suoni sono per sempre “altri”. Tutto ciò può deprimere o ampliare l’area della propria coscienza del mondo, o entrambe le cose. È però importante considerare che la ricchezza della propria geografia affettiva e dei propri paesaggi interiori è frutto di un teatro delle differenze che solo la molteplicità di spazi di vita può alimentare.
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