Luca Mori: Recensione di Ugo Morelli,
Mente e paesaggio. Una teoria della vivibilità,
Bollati Boringhieri, Milano 2011

Archivio Sezione Hic et Nunc

L’uomo non sta nel mondo come l’acqua sta in un bicchiere o un libro nello scaffale di una biblioteca: eppure un modo di pensare ormai secolare ci ha abituato a concepire il rapporto tra uomo e natura come un rapporto tra contenuto e contenitore, dove le interazioni più rilevanti sono quelle meccaniche del contatto o dell’urto tra superfici, dello spostamento e della trasformazione di entità materiali quantificabili, dell’attrazione e della repulsione tra masse entro campi di forza. L’approccio del meccanicismo basato sulla fiducia nella computabilità del reale e sull’eliminabilità progressiva dell’incertezza ha reso possibili emozionanti scoperte scientifiche e rapide innovazioni tecnologiche, ma ha contemporaneamente introdotto semplificazioni e dualismi nel modo di concepire sistemi d’interazione complessi come quelli in cui emerge ed evolve la mente incarnata (embodied mind) di Homo: i fenomeni della complessità, infatti, conducono il meccanicismo a confrontarsi con i limiti della modellizzazione e della prevedibilità e lo espongono ad insuperabili aporie. Pensando in termini meccanici il rapporto con l’ambiente e tra gli uomini – arrivando a concepire l’individuo come atomo originariamente isolato, disposto entrare in relazione con altri individui dopo averne contrattato le condizioni – il pensiero moderno ha ridotto l’ambiente vitale dell’uomo all’oikos di un’economia tanto trionfante quanto miope, naturalizzando il modello dell’homo oeconomicus in costante competizione con gli altri e con la natura per accumulare risorse e sicurezza, nella prospettiva di un accumulo e di un consumo senza fine. Il senso del limite espresso miticamente in altre epoche e culture è così andato smarrito in quella che Eugenio Gaburri ha definito «promessa delirante» dello «sviluppo senza fine» (p. 69).

Il libro di Ugo Morelli su Mente e paesaggio introduce il lettore al mutamento di epistemologia indispensabile per pensare in modo radicale la questione ecologica contemporanea e, in particolare, la domanda sulla vivibilità. Elaborando una prospettiva alla confluenza di saperi ed esperienze che vanno dall’arte alla filosofia e dalla psicologia alle neuroscienze, Morelli interpreta il rapporto tra mente e paesaggio come accoppiamento strutturale, cioè come interazione complessa in cui i sistemi interagenti co-definiscono e co-evolvono la propria struttura in base alle relazioni che li coinvolgono: da qui la dinamica di morfogenesi reciprocamente indotta tra paesaggi mentali (mindscapes) e ambienti o paesaggi in cui la mente incarnata sceglie di vivere (landscapes). Leggendo la questione ecologica della vivibilità su questo sfondo, il nodo che l’uomo contemporaneo è chiamato a sciogliere riguarda la divaricazione tra l’evoluzione, che è «come vanno le cose», è il modo in cui «vorremmo che andassero» (p. 77): più precisamente, «la stessa ragione che ci ha fatto divenire capaci di pensare a quello che ancora non c’è, di concepire la possibilità di emanciparci dallo stato naturale, è quella che ci porta oggi a una soglia di rischio radicale: l’autodistruzione» (ibid.).

Il problema è che noi, anche perché continuiamo ad orientare le nostre azioni secondo le linee guida di un’epistemologia errata, continuiamo a fare andare le cose diversamente da come forse vorremmo che andassero: forse vorremmo vivere bene, ma ci accontentiamo di vivere accumulando e consumando. Prima di un effettivo dubbio, è però la necessità che ci mette di fronte alla responsabilità di ridisegnare i nostri confini, le nostre epistemologie e dunque i nostri comportamenti (pp. 120-121). Il compito che il libro di Morelli sollecita e sostiene è precisamente quello di «re-incorniciare, ri-figurare appunto, sotto una veste inedita il senso e il significato della nostra presenza sul pianeta» (p. 25). Di fronte ad un tale compito, siamo oggi nella condizione paradossale di avere inedite possibilità di riconoscerci e di distruggerci (p. 78), poiché le nostre conoscenze riguardo alla mente umana e all’evoluzione dei suoi rapporti con l’ambiente sono all’altezza della sfida della ri-figurazione, ma le epistemologie desuete ed i comportamenti naturalizzati resistono al cambiamento, intolleranti dell’incertezza e sostenuti dal cono d’ombra dell’inconscio cognitivo, che ci impedisce di percepire i lenti mutamenti che compromettono la vivibilità delle relazioni umane e dei loro ambienti. Accade così, ad esempio, di cadere in “trappole del pensiero” come quella della «discussione bizantina sul fatto che le cause della crisi ambientale siano strutturali o contingenti» (p. 30), imputabili o no all’azione umana: qui l’esibizione di una pretesa di certezza nasconde un circolo d’indecisione e la rimozione della domanda cruciale sulla buona vivibilità, la cui cogenza prescinde dall’incertezza nel cercare le cause della crisi ambientale.

Alla responsabilità di re-immaginare il futuro è chiamata una ragione poetica capace di sostenere l’«angoscia della bellezza» (p. 164) e di affrontare la domanda cruciale circa «le ragioni che vincolano l’accesso alla bellezza del progetto e alla realizzazione della bellezza di sé» (ibid.).

Il compito è al tempo stesso educativo e politico: mentre il tema dell’apprendimento attraversa tutto il libro, sulla questione politica Morelli si concentra in particolare nel sesto capitolo, dove il rapporto tra politica e bellezza si gioca nell’apprendere ad accedere alla tensione tra l’esistente e il possibile desiderabile, tra ciò che è e ciò che sarebbe bello che fosse, tra il mero vivere e il vivere bene. Soltanto un’immaginazione capace di accedere a tale tensione può dirsi propriamente politica: creare le relazioni e le condizioni affinché tale immaginazione possa esercitarsi ed esprimersi è ciò che si deve fare, secondo un’esortazione che Morelli riprende dal maestro Luigi Pagliarani, entrando in conflitto con le condizioni da cui deriva quel senso di saturazione che scoraggia a re-immaginare il futuro: tra le condizioni con cui confliggere, il libro segnala la tenace persistenza di modelli dell’insegnamento e dell’apprendimento inadeguati rispetto a ciò che sappiamo su come una mente incarnata apprende e diviene, il conformarsi del discorso politico alla “vetrinizzazione” anestetica imposta dai frames del potere mediatico e la sopravvivenza del mito dell’homo oeconomicus, di un uomo che concepisce la vivibilità come questione privata e che tende a ridurre l’oikos comune e limitata dell’ecologia all’oikos dell’economia, in cui si vorrebbe che tutto fosse calcolabile e in cui si tende a decidere ciò che vale la pena fare in relazione a ciò che appare profittevole. Su tutti questi punti, l’essere umano ha oggi l’inedita opportunità di cambiare idea ed il libro di Ugo Morelli si presenta come un aiuto in tal senso, grazie ad una scrittura scientificamente rigorosa e al tempo stesso evocativa, capace di restituire l’emozione del ricercatore nello scoprire le connessioni tra la mente incarnata e i suoi paesaggi. Apprendere a vedere nuove relazioni è la conditio sine qua non della creatività: nel districarsi in modo creativo tra i vincoli e le possibilità in cui si trova, si giocherà il destino di Homo.