È in libreria e nei bookshop della rete la nuova edizione del libro curato da Ugo Morelli e Carla Weber

Un dialogo con Luigi Pagliarani, Violenza e bellezza. Il conflitto negli individui e nelle istituzioni, Guerini e associati, Milano 2012.

Archivio Sezione Hic et Nunc


Introduzione alla nuova edizione

Col senno di prima
di Carla Weber e Ugo Morelli


Il tempo è un grande scultore. A diciannove anni dalla prima pubblicazione, questo dialogo mostra ancor più tutta la sua rilevanza e si propone come un programma di ricerca e intervento per la vita presente. Il mondo e le nostre vite, nel frattempo, sono cambiate in un modo che nessuna previsione avrebbe potuto immaginare. Prevedere si sa, non è però determinare con certezza il futuro andamento degli eventi. È, bensì, disporsi a cogliere i segnali che si manifestano, con mente aperta ed esercizio del dubbio. È, forse, praticare il conflitto nel rapporto con la conoscenza e con i nostri stessi metodi di ricerca. Fin dalla concezione di questo dialogo, Luigi Pagliarani volle mettere al centro il compito della psicologia e della psicoanalisi. In particolare volle riflettere con noi su una mancanza, una “dimenticanza” della psicoanalisi, riguardo al tempo presente. Era quello il tempo che più di tutto lo coinvolgeva. Principalmente dopo la caduta del muro di Berlino. Si era perfino ingegnato, come gli piaceva fare, a coniare un sostituto di “d. C.” (dopo Cristo) con “p. B.” (post Berolinum), in quanto coglieva che il mondo non sarebbe stato più lo stesso. Vale perciò la pena chiedersi in quale rapporto stanno con il presente, quello che viviamo nella seconda decade del ventunesimo secolo, i contenuti di questo dialogo sulla violenza e la bellezza, sul conflitto negli individui e nelle istituzioni. Vale la pena, quindi, domandarsi se le discipline psicologiche e la psicoanalisi siano state e siano in grado di assumersi il compito di rivolgersi al presente e di lavorare a comprendere le implicazioni delle connessioni tra mondo interno e mondo esterno, tra puer e polis, per dirla con le parole di Pagliarani; o tra faber e officina. La dimenticanza, ad ogni osservazione, sembra essersi fatta oblio e i tecnicismi e le formule buone da vendere sembrano invadere ogni spazio e ogni occupazione della maggior parte di coloro che si dichiarano esperti della psiche umana. Si assiste troppo spesso a un’oscillazione tra riduzionismi eccessivi basati sull’ossessione della misura a distanza, e culto del sensazionalismo accattivante che richiama la nota affermazione di Walter Benjamin sui feuilleton della grande Vienna in crisi, rispondenti al bisogno di “iniettare all’esperienza quasi per via endovenosa il veleno della sensazione.” Lo spirito del tempo, improntato al sentimentalismo o allo specialismo separante, sovente, non lascia indenni neppure quelle comunità di persone che avrebbero la responsabilità di occuparsi di alcuni aspetti della nostra vita, prendendosene cura. Ciò vale, tra l’altro, per il lavoro, per la crisi del legame sociale, per la disaffezione verso la politica, per le difficoltà dei sistemi educativi, per la cultura: in ognuno di questi campi le scienze psicologiche non brillano per ricerche e contributi critici; anzi, spesso, agiscono fiancheggiando azioni e decisioni che non vanno nella direzione dell’emancipazione individuale e collettiva, della creatività e giustizia sociale. La deriva tecno-specialistica e commerciale, consolatoria e mediatico-disimpegnata della psicologia e della psicoanalisi ne è una prova evidente. È allo stesso tempo sempre più impegnativa la domanda sulle capacità degli esseri umani di valorizzare le proprie possibilità generative per creare una vita sufficientemente buona e una società improntata sulla libertà e la giustizia. Soprattutto oggi che un auspicio del genere dovrebbe riguardare i popoli di questo nostro pianeta che è divenuto un villaggio, chiamati come siamo ad affrontare problemi globali e controversi che riguardano la stessa vivibilità. I conflitti da elaborare si sono fatti pervasivi e coinvolgono ogni campo della nostra vita, dal livello intrapsichico a quello collettivo e politico. La capacità di riflessione e la depressione richieste e necessarie per accedervi, si presentano, però, come il primo problema e la negazione del conflitto appare endemica e diffusa. Sia il tema dell’accessibilità al conflitto che quello dell’esigenza di farsi carico delle difese che si frappongono a una sua buona elaborazione, posti in modo evidente in questo libro, sono più urgenti che mai. Contro la pretenziosa neutralità psicoanalitica e quello che chiama “lo schermo del diniego”, Pagliarani sostiene che “il vero crimine è tacere”. Il suo costante invito a valorizzare la psicologia sociale e la psicoanalisi per comprendere le difese e le resistenze ad accedere all’efficace gestione del conflitto, ha sempre riguardato in primo luogo il modo di procedere delle discipline stesse e l’esigenza della prassi del controtransfert. Anche per questa ragione Pagliarani si è impegnato a concepire una sintesi scientifica originale in termini paradigmatici e metodologici come la psicosocioanalisi, a cui ha assegnato tra l’altro la ricerca delle condizioni per l’analisi e la gestione del conflitto, per la comprensione dei vincoli e delle possibilità della generatività e progettualità umana e per una efficace pratica del controtransfert istituzionale. Urgente nell’età atomica, a cui tanta attenzione ha dedicato insieme a Franco Fornari, quella necessità si presenta ancor più viva nell’età dei problemi ecologici e della crisi della vivibilità. Oggi più che mai, come Pagliarani sostiene con forza in questo dialogo, è decisivo “tentare l’intentato”: “una sfida esaltante” per “sposare l’amore al fare”, come via per la bellezza possibile, per giungere a forme sufficientemente compiute di pienezza di sé, per gli individui umani. Proseguendo la sua ricerca, il numero sedici del duemilaundici della rivista Educazione sentimentale, intestata e ispirata al pensiero di Luigi Pagliarani, è, appunto, dedicato alla Bellezza. Dall’originario all’originale. Anche per la bellezza si pone la questione delle soglie di accessibilità e in questo dialogo Pagliarani descrive le caratteristiche di quella “terza angoscia”, che tanto lo ha interessato, in merito alla ricerca delle condizioni di espressione di sé da parte di ognuno di noi. Oltre ai vincoli all’accesso, la bellezza si distingue per la sua fragilità, mentre indica un vertice dell’umano: “Quanto alla bellezza, il suo attributo fascinoso è la caducità”, dice in questo dialogo. “Credo che l’inseguimento della bellezza sia un vincere la caducità. La vita ha una tale prepotenza e si garantisce talmente che ciò è visibile in ogni manifestazione del vivente”. Le riflessioni di Martha C. Nussbaum sulla fragilità del bene corrispondono a questo suo modo di vedere e sentire. È nel rapporto individuo – società che l’espressione di sé si realizza e, in particolare, nella relazione, che come Pagliarani ha ripetuto tutta la vita, è l’origine di tutti i problemi e di tutte le possibilità. “Ognuno di noi ha un grande spazio nella relazione con e nel riconoscimento del/l’altro”. A proposito della relazione e della possibilità di accesso al conflitto e alla sua buona elaborazione, Pagliarani aveva prestato più recentemente attenzione al ruolo dell’indifferenza, intravista e prevista come una delle manifestazioni della crisi del legame sociale. La moltiplicazione dei linguaggi e la distanza che si amplia e riduce, creano condizioni inedite: “Si ripresenta la Torre di Babele: minaccia e speranza ad un tempo”, dice Pagliarani, indicando un aspetto peculiare della nostra condizione attuale. Psicosi di massa e indifferenza possono prendere il sopravvento in questa situazione in cui l’equilibrio demo-economico giunge al limite delle possibilità di tenuta. Proprio in queste condizioni può emergere però un’inedita progettualità umana e questa possibilità richiede di essere coltivata con cura. Un necessario rigore critico nei confronti della moda del “relazionalismo”, esige che si consideri la natura relazionale di noi esseri umani come fondativa della nostra stessa individuazione. L’investimento nella relazione diviene cruciale, perciò, accanto all’investimento su di sé e nell’obiettivo. La presa di coscienza non basta, ci ricorda Pagliarani, è necessaria la pazienza, cominciando col chiedersi se ognuno ha allevato e alleva bene se stesso: “A ciascuno il proprio appuntamento con se stesso”, suggerisce Pagliarani.“Dovremmo vivere in modo che la nostra vita possa diventare un racconto”, sostiene, con la passione che lo contraddistingueva, in questo libro. Da qui la necessità di esserci, presentire, nel senso di essere presente. Oggi possiamo riconoscere che il punto di attenzione di Pagliarani si è proposto e si propone come uno sguardo dal futuro che assume, in questo tempo, i caratteri di un “classico”, come egli amava ripetere schernendosi con un sorriso e dicendo: “sono un classico perchè dico sempre le stesse cose”. Un’altra accezione affine a questa sua, proprio come accade per le opere che riescono ad andare oltre il loro creatore, può riguardare il lascito di Pagliarani: “classico” riconduce, infatti, al “caléo” greco, prima dorico poi ionico, e indica “ciò che chiama, invoca”, o meglio quel che è preponderante in quel che chiama e invoca. Una delle lezioni di vita di Luigi Pagliarani è stata, infatti, la sua disposizione continua ad ascoltare il presente che chiama, stabilendo un serrato e “polemico” dialogo con gli altri e il mondo.

Gennaio, 2012